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Pasolini, 50 anni senza il poeta: il delitto che continua a interrogare l’Italia

2 Novembre 2025

(Adnkronos) – A mezzo secolo di distanza, la morte di Pier Paolo Pasolini rimane una ferita aperta nella coscienza nazionale. Tra misteri, processi, ritrattazioni e teorie del complotto, l’assassinio del poeta, regista e scrittore resta un simbolo delle contraddizioni di un Paese che non ha mai smesso di specchiarsi nella sua ombra.

La mattina del 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia, il corpo martoriato di Pasolini giaceva nel fango. Lo trovò una donna alle prime luci dell’alba, lo riconobbe l’amico Ninetto Davoli, giovane attore prediletto, poche ore dopo. L’intellettuale ‘scomodo’ per antomasia aveva 53 anni. Era stato picchiato e travolto con la sua stessa automobile, un’Alfa Romeo Giulia GT.

Quella stessa notte la polizia fermò un ragazzo di diciassette anni, Giuseppe ‘Pino’ Pelosi, alla guida della vettura di Pasolini. Confessò l’omicidio, raccontando di una lite degenerata in violenza. Ma da subito, i contorni del caso apparvero troppo confusi, troppo contraddittori per una verità semplice.

Pelosi venne condannato per omicidio volontario. Le sentenze esclusero la presenza di complici. Eppure, la scena del delitto, le ferite, le testimonianze raccolte in seguito raccontavano altro: più persone, rumori, grida, persino un’auto con targa di Catania che avrebbe seguito quella di Pasolini.

Nel 2005, trent’anni dopo, Pelosi ritrattò tutto: disse di non essere stato lui, di aver assistito al massacro compiuto da “tre uomini arrivati su un’auto scura”, che durante l’aggressione gridavano insulti omofobi. Le sue parole riaprirono vecchie ferite e vecchi sospetti. Nel frattempo malato di tumore, il 20 luglio 2017, Pelosi è morto, unico condannato in via definitiva per l’omicidio dell’autore di “Ragazzi di vita”,

Da 50 anni, inchieste, film e libri hanno continuato a scavare. Il regista Marco Tullio Giordana nel suo film “Pasolini, un delitto italiano” concluse che il giovane non poteva aver agito da solo. Altri, come la giornalista e scrittrice Oriana Fallaci già nel 1975, avevano ipotizzato un complotto più ampio, forse politico.

Le ipotesi si sono moltiplicate: un regolamento di conti legato alla sparizione di alcune bobine del film “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, la sua denuncia del potere economico e petrolifero nel romanzo “Petrolio” (uscito postumo nel 1992), le accuse alle trame oscure della strategia della tensione.

Per altri, invece, il mistero non esiste. A uccidere Pasolini, hanno sostenuto intellettuali come Edoardo Sanguineti e Franco Fortini, fu la stessa vita che conduceva: la ricerca del limite, l’attrazione per il pericolo, l’esposizione consapevole al rischio. Il cugino Nico Naldini liquidò le teorie del complotto come “bufale che si divorano l’una con l’altra”, sostenendo che Pasolini fu vittima di una passione autodistruttiva, non di una congiura. “Il complotto ci fa delirare”, aveva detto lo stesso Pasolini poche ore prima di morire, in una delle sue ultime interviste. “Ci libera dal peso di confrontarci da soli con la verità”.

Cinquant’anni dopo, quella verità resta opaca. Le nuove indagini, archiviate definitivamente nel 2015, non hanno prodotto elementi decisivi, se non alcune tracce di Dna di incerta interpretazione.

Rimane la figura di un intellettuale che, come scrisse Alberto Moravia, “fu simile alla sua opera e dissimile da essa”: simile per la tragicità e la violenza della fine, dissimile perché Pasolini non era uno dei suoi personaggi marginali, ma una delle coscienze più lucide e feroci del Novecento italiano.

Sulla tomba di Casarsa, accanto alla madre Susanna Colussi, riposa un poeta che continua a dividere e a parlare. Il suo corpo è stato sepolto, ma il suo assassinio non lo è mai stato davvero. Perché Pasolini, forse più di chiunque altro, è morto come aveva vissuto: al confine tra la verità e lo scandalo, tra la carne e l’idea, tra la vita e il mito. (di Paolo Martini)

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