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Farmaci: Barcellini (Policlinico Milano), con ravulizumab benefici per pazienti Epn

25 Gennaio 2022

Roma, 25 gen. (Adnkronos Salute)() – “Per i pazienti con emoglobinuria parossistica notturna (Epn), fino a poco tempo fa la terapia era solo di supporto: trasfusioni, acido folico, la supplementazione con ferro, fino al trapianto del midollo osseo allogenico che è l’unico approccio curativo, ma con un’importante morbilità e mortalità. Oggi, fortunatamente, abbiamo a disposizione un’arma in più: ravulizumab, un nuovo anticorpo monoclonale che può essere somministrato ogni 8 settimane rispetto alla terapia standard eculizumab che richiede un’infusione in ospedale ogni 15 giorni. Dunque, avere a disposizione un farmaco come ravulizumab, che ha un minor carico di trattamento, ma la stessa efficacia e sicurezza, è un importante passo avanti per i pazienti con Epn, ma si tratta di una terapia da fare per tutta la vita”.

Così Wilma Barcellini, dirigente medico di I livello, responsabile dell’Unità semplice fisiopatologia delle anemie, Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, intervenendo questa mattina alla conferenza stampa virtuale ‘Malattie rare: nuove opportunità e prospettive di vita per persone con emoglobinuria parossistica notturna’, promossa da Alexion Pharma Italy, parte di AstraZeneca, per fare il punto sulle novità di trattamento e i futuri standard di cura che consentiranno una migliore qualità di vita per i pazienti adulti affetti dalla malattia ematologica rara. A moderare i lavori, Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttore dell’Osservatorio malattie rare (Omar).

L’emoglobinuria parossistica notturna – ricorda l’esperta – si presenta con sintomi aspecifici, “stanchezza, mancanza di respiro, dolori addominali e toracici, impotenza, tutte cose che possono essere sottovalutate dal medico”.

Sintomi che, precisa Barcellini, possono essere sottostimati da un medico magari “non attento e che non immagina, invece, di essere di fronte all’Epn che in realtà nasconde altre insidie: trombosi, insufficienza midollare e la possibile evoluzione clonale. La diagnosi della malattia è estremamente facile: basta fare un’indagine citofluorimetrica delle cellule Gpi negative su sangue periferico”.

Nei casi in cui è necessario trattare il paziente, prosegue la specialista, “lo standard è eculizumab, un anticorpo monoclonale diretto contro una frazione del sistema del complemento denominato C5, che ne inibisce l’attivazione. L’abnorme attivazione di C5, infatti, è all’origine della malattia: bloccarla significa bloccare l’emolisi e ridurre in modo significativo l’anemia e il rischio di trombosi. Eculizumab è disponibile in Italia da più di 10 anni e ha cambiato la storia naturale della malattia, che di per sé ha elevate morbilità e mortalità e per la quale prima non esisteva alcuna terapia. Oggi i pazienti che rispondono bene al farmaco hanno un’aspettativa di vita sovrapponibile a quella della popolazione generale e hanno una qualità di vita decisamente migliore rispetto al passato”. Ma eculizumab va somministrato endovena ogni 2 settimane. “La terapia rappresenta” dunque “un discreto impegno per il paziente che ogni 14 giorni deve recarsi presso il proprio centro di riferimento per una nuova infusione”.

“Alcuni pazienti, poi – evidenzia Barcellini – possono non rispondere bene al trattamento: si tratta dei cosiddetti suboptimal responder e sono coloro per i quali la terapia non riesce a garantire livelli normali di emoglobina. Un ulteriore problema che può verificarsi è la breakthrough hemolysis (Bth), cioè l’emolisi che avviene nonostante l’inibizione del C5. Ne esistono di due tipi: la Bth cinetica e la Bth dinamica. La prima si può presentare verso la fine dell’intervallo tra due infusioni ed è dovuta al fatto che eculizumab non copre in modo adeguato l’intero periodo, forse perché sottodosato. La seconda, invece, si può verificare in qualsiasi momento nell’intervallo di 14 giorni ed è scatenata da un’infezione intercorrente (dal banale raffreddore a infezioni più serie, come quella da Sars-CoV-2 per la quale abbiamo osservato Bth importanti), che porta all’attivazione sovramassimale del sistema del complemento”.

“Ravulizumab – continua l’esperta – rispetto a eculizumab ha un’emivita che è 4 volte maggiore. Ciò consente di poter somministrare il farmaco ogni 8 settimane anziché ogni 2, con vantaggi non indifferenti per i pazienti. Due studi clinici, uno con pazienti che passavano dalla somministrazione di eculizumab a quella di ravulizumab e uno con pazienti naive, hanno confrontato il profilo di sicurezza e di efficacia di ravulizumab con quello di eculizumab e hanno dimostrato che il nuovo anticorpo monoclonale non è inferiore rispetto allo standard di cura. Ravulizumab riesce a inibire in modo più efficiente il C5, stabilizzando l’anemia e l’emolisi. In altre parole non lascia C5 libero, un indice di inibizione subottimale del fattore fondamentale della patogenesi. I dati che deriveranno dall’impiego in real life, infine, potranno confermare la significatività statistica dimostrata nei trial”.

Ma quali pazienti sono candidabili a ravulizumab? “I pazienti con malattia stabile e da tempo in terapia con eculizumab sono i primi candidati al passaggio a ravulizumab – chiarisce Barcellini – Spesso sono i pazienti stessi a richiederlo, proprio perché ormai provati dai ripetuti accessi in ospedale. Anche i pazienti naive possono essere candidati al trattamento con ravulizumab, ma con una piccola accortezza da parte del curante: il paziente che ha ricevuto da poco tempo la diagnosi deve imparare a conoscere bene la malattia, cosa comporta e come gestirla. Pertanto, anche se inizia la terapia con ravulizumab, sarà necessario monitorarlo con tempistiche più ravvicinate rispetto alle 8 settimane previste”.

Un aspetto particolare riguarda le giovani pazienti che desiderano figli, “in quanto al momento – puntualizza la specialista – non abbiamo dati di sicurezza sufficienti per l’impiego di ravulizumab in gravidanza, dove è quindi raccomandato eculizumab. Anche per i pazienti con malattia non ben controllata con eculizumab e per i suboptimal responder è necessaria una valutazione più approfondita del caso prima di proporre il passaggio a ravulizumab”.

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