Sono 13 mln gli italiani con dolore cronico, il 19% attende 10 anni per diagnosi
Roma, 3 ott. (Adnkronos Salute) – Oltre 100 milioni di persone in Europa, 13 milioni solo in Italia, soffrono di dolore cronico e affrontano la sofferenza quotidiana con terapie farmacologiche, trattamenti manuali, soluzioni specialistiche, interventi chirurgici. E non è tutto: secondo quanto emerso da una survey condotta nel luglio 2022 da un Istituto di ricerca indipendente in Germania, Regno Unito, Spagna e Italia su 2000 pazienti affetti da dolore cronico, quelli italiani possono attendere fino a 10 anni prima di avere una diagnosi corretta e impostare terapie adeguate, spesso inascoltati dagli stessi medici.
Il dolore cronico è costante, dura più di tre mesi e può colpire chiunque, a varie età, in qualsiasi parte del corpo. È classificato in due grandi categorie: dolore nocicettivo (una lesione, un taglio, un’ustione) o neuropatico, ovvero generato da un problema che coinvolge le fibre nervose alterando la capacità dei nervi di trasmettere al cervello i segnali sul dolore. Il dolore neuropatico più diffuso è il dolore alla schiena che di frequente coinvolge contemporaneamente sia la zona inferiore della schiena sia le gambe; si registra però anche una forte incidenza di fibromialgia, vulvodinia, emicrania. Una condizione cronica che può avere effetti devastanti nella vita quotidiana e compromettere attività lavorative, relazioni interpersonali, rendendo impossibili per milioni di persone (in Italia il 56% donne) gesti semplici come raccogliere qualcosa da terra o accavallare le gambe. In realtà, la dimensione del problema è tale da configurare il dolore cronico come un grave problema sociale.
La tendenza a sottovalutare il problema è diffusa in tutta Europa, basti pensare che il 35% dei pazienti – nei 4 Paesi interessati dalla survey – non si è mai rivolto a uno specialista perché il medico di base non lo ha richiesto. In Italia non ha contattato uno specialista il 25,7% dei pazienti, il 15% ne ignorava l’esistenza, il 13% non ha trovato soluzioni idonee nel proprio territorio mentre addirittura un paziente su 10 (circa l’11%) ha rinunciato per mancanza di coperture economiche (rimborsi, assicurazioni). “Questo evidenzia come, purtroppo, i pazienti che giungono alla nostra osservazione, nella maggior parte dei casi lo facciano dopo troppo tempo e dopo molti trattamenti infruttuosi. Le possibilità di successo della terapia antalgica sono maggiori quanto meno tempo si aspetta convivendo con il dolore cronico”, afferma Giovanni Frigerio, responsabile del centro di terapia del dolore all’Istituto clinico Villa Aprica, Como.
Non migliore la situazione negli altri Paesi: in Germania il 16,8% dei pazienti ignorava l’esistenza di medici specializzati su queste patologie e 1/3 non ha avuto indicazioni dal medico di base; in Gran Bretagna addirittura il 47,4% non è stata indirizzato a uno specialista e 1 paziente su 5 (il 19,2%) non ne conosceva l’esistenza, mentre anche in Spagna il 36% dei pazienti non ha ricevuto consigli dal proprio medico. Eppure, l’impatto nella vita quotidiana di dolori quali mal di schiena, emicrania, fibromialgia è pesantissimo, con conseguenze molto serie e perdita di giornate lavorative.
“Le criticità per cui i pazienti con dolore cronico non arrivano o arrivano dopo anni di attesa ad un centro di terapia del dolore sono di ordine organizzativo e culturale – sostiene Laura Demartini, responsabile di Unità semplice terapia del dolore, Ics Maugeri di Pavia -: il primo perché, nonostante siano trascorsi 12 anni dalla promulgazione della legge 38 e le Regioni abbiano deliberato in merito alla Rete di terapia del dolore, non sono stati effettuati gli accreditamenti e i passi necessari a renderla una realtà. Il secondo perché i medici di medicina generale e diversi specialisti spesso non conoscono le opzioni diagnostiche e terapeutiche fornite dai centri e pensano a delle cure palliative non mirate alla causa del dolore”.
Mediamente 1 paziente su 5, nei 4 Paesi considerati, è stato costretto ad abbandonare il lavoro mentre 1 paziente su 3 si è spesso assentato, a prescindere dalla tipologia di attività svolta. Sorprendentemente, il dato italiano segnala che la percentuale di donne che hanno dovuto lasciare il lavoro a causa del dolore cronico (23%) è molto più bassa rispetto alla media degli altri Paesi (49,7%), con il 49% della Spagna, il 57% della Germania e, addirittura, il 68% della Gran Bretagna. Per il 27,6% dei pazienti affetti da dolore cronico è molto difficile, a volte impossibile, affrontare un lavoro. Per 1 paziente su 3 (28,2%) è difficile fare commissioni, salire sui mezzi pubblici, lavare i piatti, fare le pulizie domestiche, il bucato, curare il giardino. Se si tratta di donne, emerge come le difficoltà si presentino con frequenza doppia rispetto agli uomini, con una media del 36% nei 4 Paesi, rispetto al 22,2% degli uomini. Medesime difficoltà sono riferite agli hobby, alla pratica sportiva, alle attività musicali. Si aggiunga che la maggior parte delle donne (49,4%) trova difficile fronteggiare il dolore senza assumere farmaci, a fronte di una percentuale del 28,9% di uomini.
E ancora: circa 1 paziente su 4 attende una diagnosi adeguata e può iniziare terapie appropriate dopo tre anni, mentre per un quarto circa l’attesa è da 1 a 3 anni, con una segnalazione di ‘eccellenza’ della Spagna, dove la diagnosi arriva, in genere, entro un anno per il 60% dei pazienti. Problematico, invece, il dato italiano, dove il 19,1% degli uomini (1 su 5) può attendere anche 10 anni; la percentuale si attesta sull’11,2% per le donne (1 su 10), caratterizzando l’Italia come il Paese con la peggiore performance su questo specifico aspetto.
La survey rileva la difficoltà di sottoporre il proprio problema a uno specialista del settore. La maggior parte dei pazienti nei 4 Paesi in esame ha consultato da 1 a 4 medici generici prima di approdare a uno specialista; ben il 17,7% dei pazienti italiani (1 su 6) si è rivolto a 5-10 medici prima di individuare lo specialista più idoneo. Su questo fronte non va però sottovalutato il ruolo dei medici di base: un terzo dei pazienti, pari al 29,9%, ha ricevuto la diagnosi direttamente dal medico di famiglia. Si evidenzia inoltre che chi si è rivolto subito allo specialista (42,6% in UK, 31,7% in Germania, 53,8% in Italia e 26,1% in Spagna) è riuscito ad avere la diagnosi entro un anno.
“Il ritardo nell’invio dopo anni dall’inizio della sindrome dolorosa rende complesso l’approccio con i malati”, spiega Paolo Notaro, direttore della Struttura complessa di terapia del dolore dell’ospedale Niguarda di Milano. “Ritengo che la scarsa conoscenza dei percorsi e delle prestazioni effettuati dalla rete di terapia del dolore sia una delle principali cause dei ritardi nell’appropriatezza degli invii alle strutture di terapia del dolore, malgrado la terapia sia riconosciuta come disciplina ospedaliera dal 2018 e la legge 38 del 2010 sancisca il diritto alla cura del dolore in tutti i contesti ospedalieri e territoriali. L’approccio con i malati è più problematico: il dolore perdurante impatta infatti su diverse dimensioni come la sfera psicologica, relazionale oltre che fisica trasformando il dolore da sintomo iniziale in dolore globale e malattia-dolore. Nei pazienti con dolore complesso è necessario un approccio multidisciplinare e il ricorso alle tecniche mininvasive ad alta tecnologia per contrastare il dolore là dove si genera e sugli stessi meccanismi di amplificazione; è evidente che il ritardo di cure appropriate rischia di peggiorare drammaticamente la qualità di vita dei malati”.
Oggi sono disponibili vari farmaci per migliorare la qualità di vita dei pazienti come antidolorifici, antinfiammatori, omeopatici oppure dispositivi quali i neurostimolatori midollari, sistemi di ablazione con radiofrequenza, terapie riabilitative, agopuntura. In prevalenza, per ben il 68%, i pazienti si affidano agli antidolorifici e il 51% agli antinfiammatori, con scarso ricorso alle terapie interventistiche. Eppure – emerge dalla survey – 1 paziente italiano su 10 (11,8%) non riceve alcun trattamento (farmacologico o di altro tipo) per contrastare il dolore cronico, mentre lo standard degli altri Paesi evidenzia 1 paziente su 20, per trattamenti terapeutici di vario tipo. Risulta evidente come ogni dolore sia diverso dall’altro e richieda terapie personalizzate: 1 paziente su 4 conferma che la percezione del dolore è scesa dal 23,7% prima dei trattamenti al 4,3% dopo le terapie, confermando che una terapia adeguata e ‘su misura’ può concretamente migliorare la qualità della vita.
Per quanto concerne le soluzioni più evolute quali, per esempio, i neurostimolatori midollari impiantabili che funzionano (analogamente ai dispositivi cardiaci) come veri e propri ‘neuropacemaker’, erogando stimolazioni elettriche al cervello per controllare il dolore, questi vengono maggiormente utilizzati per i pazienti di sesso maschile rispetto alle donne. Secondo la Survey, 11,8% di uomini nei 4 Paesi hanno avuto l’impianto di un neurostimolatore, a fronte del 5,5% di donne. “La survey conferma la preoccupante situazione di una patologia altamente invalidante e non adeguatamente trattata quale è quella del dolore cronico”, rimarca Giuliano De Carolis, terapista del dolore presso l’Aou Pisana -. Fatto ancora più grave considerando che abbiamo a disposizione strumenti terapeutici anche non farmacologici in grado di alleviare le sofferenze dei pazienti. Purtroppo, 2 anni di pandemia hanno peggiorato ulteriormente lo scenario italiano dove molti centri e ambulatori di terapia del dolore sono andati in sofferenza e, purtroppo, alcuni stentano ancora oggi a ripartire a pieno regime. Ci attende un periodo difficile ma ci auguriamo che l’impegno della politica abbia sempre come fine la cura della malattia e la salvaguardia della salute, nel pieno rispetto della dignità della persona”.
Gli italiani – sempre secondo l’indagine – non amano parlare dei propri problemi di dolore cronico. La maggior parte (47%) teme di non essere presa sul serio, il 36,3% di essere giudicata mentre il 29,7% ha paura di annoiare gli interlocutori; questa reticenza è stata confermata anche durante e dopo la pandemia. Una particolare riservatezza riguarda l’ambito professionale, indicato da metà dei pazienti; il timore di non essere presi sul serio è espresso dal 34,4% mentre il 29,1% teme che il dolore cronico possa avere impatto sfavorevole sulle opportunità di lavoro. “Dei pazienti che arrivano alla nostra struttura hub ospedaliero-universitaria di Foggia – conclude Leonardo Consoletti, direttore responsabile Ssvd di medicina del dolore degli Ospedali Riuniti di Foggia – solo 1/3 ci viene inviato dal medico di medicina generale; meno ancora dai colleghi specialisti. Funziona moltissimo il ‘passaparola’ tra pazienti (oltre il 50%) ed è in crescita l’affluenza diretta mediata da ricerca web. E sì che siamo presenti sul territorio dal 1992, con centinaia di eventi formativi ed informativi. Ma non demordiamo: la prossima giornata mondiale sul dolore cronico ci vedrà ancora in piazza col nostro gazebo informativo e con il personale, anche volontario, per difendere la legge 38/2010 e promuoverne il significato”.
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