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La Storia siamo noi

Lo stesso giorno, 39 anni dopo. A volte, semplicemente non puoi cercare una spiegazione, un senso. Le cose accadono e basta, per fortuna.

La Storia siamo noi

Lo stesso giorno, 39 anni dopo. A volte, semplicemente non puoi cercare una spiegazione, un senso. Le cose accadono e basta, per fortuna.

La Storia siamo noi

Lo stesso giorno, 39 anni dopo. A volte, semplicemente non puoi cercare una spiegazione, un senso. Le cose accadono e basta, per fortuna.

Lo stesso giorno, 39 anni dopo. A volte, semplicemente non puoi cercare una spiegazione, un senso. Le cose accadono e basta, per fortuna.

39 anni dopo il Santiago Bernabeu, Paolo Rossi e Sandro Pertini, l’Italia ha vinto un altro grande torneo proprio l’11 di luglio. Campione d’Europa, 53 anni dopo la prima e unica volta, nella notte delle fiaccole accese sugli spalti dello stadio Olimpico di Roma. Un mondo in bianco e nero, quello del primo titolo europeo azzurro, che stava vorticosamente cambiando.

I ragazzi dell’11 luglio 1982 scalarono il mondo, spalancando le porte del mito, a cui bussano oggi gli Azzurri di Mancini.  Europei e Mondiali fanno la Storia, ti consegnano a una dimensione diversa, cristallizzano i momenti. Sollevare la Coppa è un po’ non invecchiare mai, giovani per sempre come gli eroi omerici. È una condizione dolcissima e terribile, allo stesso tempo. Diventi parte dell’immaginario collettivo del Paese, ma sai che sarà presto impossibile conciliare quelle sensazioni irripetibili con la routine della vita che va avanti.

Lo spiegò meravigliosamente proprio Paolo Rossi: “Quella notte, sul prato del Bernabeu, camminavo e mi guardavo intorno – avrebbe scritto tanti anni dopo, riuscendo a far pace con la sua stessa leggenda – provando a fissare la felicità, ma sapendo già che sarebbe scappata via“.

È incredibile quanto possa essere splendida e malinconica una notte così.

Riguardiamo insieme le immagini di allora e quelle di 48 ore fa: in Spagna, mentre Sandro Pertini con il suo innato senso della popolarità e dello spettacolo, si conquistava un personalissimo posto nel cuore degli italiani, gli Azzurri di Bearzot portavano in trionfo il loro condottiero. Un uomo di rara sensibilità e cultura, prestato al nostro sport nazionale. Gli abbracci, la corsa con la Coppa del Mondo fra le mani, decine di migliaia di italiani corsi a Madrid per la notte che aprì gli anni ottanta. La gioia era folle, eppure non piangeva nessuno.

Sul prato di Wembley, domenica sera, non c’è stato un azzurro, un membro dello staff della Nazionale che sia riuscito a trattenere le lacrime. Il pianto irrefrenabile di Roberto Mancini e Gianluca Vialli abbracciati in quello stesso stadio (per quanto rinnovato, Wembley resta Wembley), dove il sogno della Sampdoria Campione d’Europa si era schiantato sulla punizione di Koeman del Barcellona, nel ‘92, è solo la copertina. Tutti travolti, nessuno escluso.

Le lacrime di Wembley, la gioia più composta del Santiago Bernabeu di 39 anni fa, sono lo specchio di mondi diversi. Di educazioni ormai lontane fra di loro.

Quei ragazzi erano ancora figli di un mondo in cui si insegnava che gli uomini non piangono. Oggi, abbiamo superato l’idea che il maschio non possa concedersi lacrime in pubblico. I nostri eroi del pallone conciliano senza imbarazzo corpi ultra curati e iper tatuati con gli occhi gonfi di lacrime.

Non è meglio o peggio di prima, è solo diverso. Il Paese è diverso, la società e i suoi schemi. Le persone sono cambiate, le interazioni, i modi di manifestare e nascondere le emozioni.

È la magia di notti così a restare sempre uguale, la consapevolezza urlata in diretta Tv da Leonardo Bonucci: “siamo leggende”.

Nessuna spocchia, solo una presa di coscienza. Una gigantesca responsabilità: essere eredi di Meazza e Valentino Mazzola. Riva e Rivera. Rossi e Tardelli. Baggio. Cannavaro, Totti e Buffon.

Essere Azzurri.

di Diego De la Vega

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