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Paralimpiadi, la spietata realtà della lotta fra campionissimi

I Giochi Paralimpici non devono essere una finestra occasionale sul mondo della disabilità ma diventare un’attività da raccontare, così come tutto lo sport.

Paralimpiadi, la spietata realtà della lotta fra campionissimi

I Giochi Paralimpici non devono essere una finestra occasionale sul mondo della disabilità ma diventare un’attività da raccontare, così come tutto lo sport.

Paralimpiadi, la spietata realtà della lotta fra campionissimi

I Giochi Paralimpici non devono essere una finestra occasionale sul mondo della disabilità ma diventare un’attività da raccontare, così come tutto lo sport.
I Giochi Paralimpici non devono essere una finestra occasionale sul mondo della disabilità ma diventare un’attività da raccontare, così come tutto lo sport.
  Nell’inverno 2006 ero direttore di “Tuttosport” e a Torino, sede del quotidiano, venivano ospitati i giochi della XX Olimpiade invernale (dal 10 al 26 febbraio). Lo sforzo per il giornale fu notevole e buoni i risultati di vendita. Ma “Tuttosport”, grazie anche all’intuizione dell’allora amministratore delegato Franco Fontana, chiese e ottenne di essere media partner del Comitato organizzativo di una manifestazione che si stava facendo largo tra l’indifferenza e la solidarietà pelosa della maggioranza: i IX Giochi Paralimpici invernali (dal 10 al 19 marzo). Il giorno della presentazione, tra atleti amputati e in carrozzina, fui avvicinato da uno di loro che, dopo avermi stretto la mano, mi disse: «Grazie per quel che state facendo, ma non vogliamo essere mosche bianche». L’episodio, secondo me, è sintomatico di cosa non devono essere le Paralimpiadi: una finestra occasionale o provvisoria sul mondo della disabilità. Molti anni sono passati da quel 2006 e ancora di più dal 1960 (Roma) quando le Paralimpiadi furono inaugurate, accostandole ai Giochi estivi della capitale. Oggi sono in pieno svolgimento a Tokio e, come al solito, ci stanno regalando medaglie in quantità, a dimostrazione che il Comitato italiano paralimpico (Cip), guidato da Luca Pancalli, è all’avanguardia sia dal punto di vista agonistico che dell’allargamento della base. Giganteschi anche i passi in avanti nel campo della comunicazione. Oggi l’atleta portatore di handicap non è più solo un disabile che vuole fare sport, ma un atleta a tutto tondo che realizza imprese ‘impossibili’ anche per i cosiddetti normodotati. Sono assolutamente convinto che i Giochi Paralimpici vadano guardati con l’occhio attento dell’addetto ai lavori e che il loro significato debba travalicare il periodo olimpico per diventare un’attività da raccontare, così come tutto lo sport. Invece anche nelle redazioni delle televisioni e dei giornali resistono ancora sacche di arretratezza culturale. La disabilità non fa (ancora) ascolto e la percezione delle vittorie o delle sconfitte continuano ad essere di nicchia e non di massa. Seppure un po’ forzato, mi viene naturale il paragone con il calcio femminile, del quale oggi tutti si riempiono la bocca come per la scoperta di una nuova frontiera: lo si mostra e lo si valorizza nei momenti cruciali (un Mondiale, un Europeo, l’avvio del campionato), ma poi continua ad essere semiclandestino od oggetto di scetticismo e battute da collegiali ripetenti. In poche, ma spero significative, parole la disabilità sportiva non ha bisogno solo dell’eccezionalità delle Paralimpiadi, ma di una dura e anche spietata normalità: un giudizio strettamente agonistico e tecnico dal quale sia escluso il ‘pietismo’. Gli atleti sono i primi a ripudiarlo, non foss’altro perché non serve a migliorarsi. Al contrario chi scia senza una gamba o corre con le protesi vuole sentirsi chiedere come si fa, quanta fatica costi e che traguardi vuole raggiungere.   di Giancarlo Padovan

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