Berlino manda in soffitta l’Ostpolitik
In due giorni la Germania ha ribaltato il paradigma della sua politica estera e di sicurezza verso Mosca e mandato all’aria decenni di strategia basata su concetti come “dialogo a ogni costo” e “cambiamento attraverso avvicinamento e commercio”.
| Esteri
Berlino manda in soffitta l’Ostpolitik
In due giorni la Germania ha ribaltato il paradigma della sua politica estera e di sicurezza verso Mosca e mandato all’aria decenni di strategia basata su concetti come “dialogo a ogni costo” e “cambiamento attraverso avvicinamento e commercio”.
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Berlino manda in soffitta l’Ostpolitik
In due giorni la Germania ha ribaltato il paradigma della sua politica estera e di sicurezza verso Mosca e mandato all’aria decenni di strategia basata su concetti come “dialogo a ogni costo” e “cambiamento attraverso avvicinamento e commercio”.
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In due giorni la Germania ha ribaltato il paradigma della sua politica estera e di sicurezza verso Mosca e mandato all’aria decenni di strategia basata su concetti come “dialogo a ogni costo” e “cambiamento attraverso avvicinamento e commercio”.
Berlino – In quarantott’ore la Germania ha ribaltato il paradigma della sua politica estera e di sicurezza verso Mosca e mandato all’aria decenni di strategia basata su concetti come “dialogo a ogni costo” e “cambiamento attraverso avvicinamento e commercio” così come l’idea di legarsi anche su questioni strategiche come i rifornimenti energetici, nella convinzione che dove corrono le pipeline non sfilano i carri armati.
«L’invasione russa segna una cesura, il mondo non sarà mai più come prima», ha esordito Olaf Scholz domenica scorsa davanti al Bundestag in seduta straordinaria. Una decina di parole che hanno introdotto un discorso già definito storico, con il quale Berlino ha rivoltato l’intera impalcatura delle relazioni nell’Europa orientale, nata negli anni Sessanta con l’Ostpolitik di Willy Brandt, consolidata negli anni da tutti i governi succedutisi e interpretata da esponenti di ogni colore e sensibilità politica: da Helmut Kohl al liberale Hans-Dietrich Genscher (ministro degli Esteri ai tempi della riunificazione), da Gerhard Schröder ad Angela Merkel.
Che una tale svolta sia stata decisa da un cancelliere socialdemocratico, presentatosi come erede di Brandt, e da un ministro degli Esteri verde (Annalena Baerbock), figlia di una tradizione pacifista, può sembrare uno dei tanti paradossi della Storia. La Germania torna ad allinearsi perfettamente con l’Occidente, ma non è un’eccezione nella lunga storia della Bundesrepublik.
Negli anni Settanta, segnati dalla guida di un altro cancelliere socialdemocratico e anseatico come Helmut Schmidt, la scelta filo-atlantica fu molto netta: non subìta per il senso di colpa della Seconda guerra mondiale o per le condizioni geopolitiche della Guerra fredda, ma affermata per convinzione e interesse. E fu sotto un ministro degli Esteri verde, Joschka Fischer, che Berlino inviò per la prima volta una sua forza militare all’estero, nell’ambito della missione in Kossovo.
La compattezza del fronte interno, di cui già informavamo giorni fa i nostri lettori – spinta dal posizionamento della stampa e dal risveglio dell’opinione pubblica e cementata dall’appoggio dell’opposizione cristiano democratica che Friedrich Merz sta riportando su posizioni più vicine alla tradizione liberal-conservatrice – è un ulteriore passaggio foriero di cambiamenti impensabili soltanto una settimana fa.
L’invio di armi in Ucraina, lo stanziamento di 100 miliardi di euro per rifondare l’esercito e la fissazione del budget per la difesa permanentemente oltre il 2% del Pil costituiscono il triplo salto in lungo tedesco, destinato a incidere anche nella politica estera dell’Ue. Certo, su alcune decisioni la Germania è arrivata un secondo dopo gli altri partner europei: tirata sullo Swift dal cambio di rotta di Draghi e sull’invio di armi a Kiev dalle pressioni di Polonia, Olanda ed Estonia.
Ma la strada era stata già indicata dopo l’attacco di Putin. E forse già all’indomani di quella maledetta conferenza stampa con il presidente russo, nella quale Scholz aveva pubblicamente duellato sul parallelo tra veri e presunti genocidi in Serbia e Donbass, senza aver afferrato che proprio quello era il pretesto che Putin avrebbe utilizzato qualche giorno dopo per giustificare l’attacco all’Ucraina.
di Pierluigi Mennitti
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