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Biden libero da condizionamenti

Avere abbandonato la corsa può rendere ora Joe Biden più debole in politica estera, oppure il contrario, ampliando il supporto agli alleati

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Avere abbandonato la corsa può rendere ora Joe Biden più debole in politica estera, oppure il contrario, ampliando il supporto agli alleati

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Avere abbandonato la corsa può rendere ora Joe Biden più debole in politica estera, oppure il contrario, ampliando il supporto agli alleati

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Avere abbandonato la corsa può rendere ora Joe Biden più debole in politica estera, oppure il contrario, ampliando il supporto agli alleati

Il ritiro dalla campagna elettorale di Joe Biden potrebbe ripercuotersi sull’approccio degli Usa in politica estera. Da un lato la presidenza guidata da un uomo virtualmente già estromesso dalla vita politica può trasmettere debolezza: i giorni che mancano alle elezioni rischiano di rivelarsi utili agli autocrati per compiere azzardi militari, scommettendo sull’incapacità di reagirvi. D’altro canto il ritiro consente a Biden di incrementare l’apporto nei teatri di tensione globale. Senza la necessità di assecondare le istanze dell’opinione pubblica, può ampliare il supporto agli alleati. I fronti principali su cui l’America è impegnata sono Europa, Medio Oriente, Indo-Pacifico e (con il riacutizzarsi delle tensioni in Venezuela contro Nicolás Maduro) Sudamerica.

Sulla guerra in Ucraina potrebbero esserci stravolgimenti: l’establishment di Kyiv ha fatto trapelare la convinzione di ottenere più sostegno, a causa della maggiore libertà d’azione del presidente. Joe Biden può impreziosire il lascito per la nuova amministrazione compiendo azioni coraggiose. Creare le condizioni per lo stravolgimento del conflitto in favore dell’Ucraina sarebbe una opzione perseguibile. Nelle scorse settimane il Pentagono aveva espresso la volontà di inviare al fronte i contractor ufficiali dell’esercito americano. Se Biden desse il via libera all’operazione e concedesse a Kyiv di usare le armi americane in tutta la Federazione Russa, compierebbe un atto eroico e potenzialmente decisivo.

Il dossier mediorientale presenta tratti simili: la pressione di parte dell’opinione pubblica ha minato – quantomeno sul piano comunicativo – l’approccio filoisraeliano del presidente. Subendo la narrazione dei terroristi sul conflitto, rilanciata dai loro asset negli Usa o da giovani disinformati e manipolabili, Biden ha operato con difficoltà nel difendere Gerusalemme e gli interessi americani nell’area. Senza dover ampliare la piattaforma elettorale, potrà evitare di assecondare gli spunti della narrazione antisemita pur esistente nella sua opinione pubblica. A seguito del barbaro attacco di Hezbollah a Majdal Shams, l’amministrazione ha prontamente riconosciuto la responsabilità della milizia sciita e riaffermato il totale sostegno all’esercizio dell’autodifesa di Israele. Una sostanziale luce verde verso un’operazione militare in Libano.

Nel quadrante dell’Indo-Pacifico gli ultimi mesi di governo di Biden potrebbero essere sfruttati per ampliare il supporto a Taiwan, pure al fine di acuire la distanza da Donald Trump. Un incremento del sostegno all’isola rafforzerebbe la narrazione sull’idea di America totalmente opposta a quella del tycoon, che ha recentemente descritto Taipei «troppo distante dagli Usa per essere difesa» e rea di «aver rubato a Washington l’industria dei chip».

Negli ultimi giorni le tensioni scatenatesi al termine delle elezioni in Venezuela – vinte con i consueti brogli dal dittatore Nicolás Maduro – hanno rilanciato l’ipotesi di sostenere le azioni dell’opposizione volte a rovesciare il regime. Il segretario di Stato Antony Blinken ha rifiutato di riconoscere l’esito farlocco del voto e anticipato la volontà di sostenere le istanze democratiche presenti nello Stato sudamericano. Intenzioni che potrebbero portare a un impegno degli Stati Uniti per stravolgere lo status quo, fattibile anche in virtù del ridotto condizionamento che l’opinione pubblica può esercitare sull’amministrazione uscente.

Di Tommaso Alessandro De Filippo

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