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Calci e voci delle donne afghane

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Calcio e musica, per continuare a esistere nonostante il regime. Le donne afghane reclamano il diritto a restare umane. Una sfida complessa che passa per le organizzazioni umanitarie, ma anche per chi lontano dal suo Paese ce l’ha fatta

Calci e voci delle donne afghane

Calcio e musica, per continuare a esistere nonostante il regime. Le donne afghane reclamano il diritto a restare umane. Una sfida complessa che passa per le organizzazioni umanitarie, ma anche per chi lontano dal suo Paese ce l’ha fatta

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Calci e voci delle donne afghane

Calcio e musica, per continuare a esistere nonostante il regime. Le donne afghane reclamano il diritto a restare umane. Una sfida complessa che passa per le organizzazioni umanitarie, ma anche per chi lontano dal suo Paese ce l’ha fatta

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Calcio e musica, per continuare a esistere nonostante il regime. Le donne afghane reclamano il diritto a restare umane. Una sfida complessa che passa per le organizzazioni umanitarie, ma anche per chi lontano dal suo Paese ce l’ha fatta. E adesso si prodiga per le sue connazionali.

Dentro i confini afghani la sfida è soprattutto quella del lavoro. L’organizzazione non governativa She Works for Peace, presieduta dall’italiana Selene Biffi, è stata fra le prime a darsi da fare. Anzitutto con la creazione di un pastificio domestico che, con l’appoggio di un’azienda marchigiana, consente alle donne di sostentarsi vendendo ai negozi locali e non. Quindi attraverso “Brave Business in a Bus”, un incubatore d’impresa mobile che si posta per il Paese. Donne che insegnano alle donne a diventare sarte, ricamatrici, produttrici di conserve e quant’altro. “Bread for Women”, a cura di Nove Caring Humans, è invece una catena tutta al femminile che produce pane. Formazione e sostegno economico per le nove fornaie coinvolte nel progetto e cibo gratis per le famiglie afghane più povere.

Fuori dai confini dell’Afghanistan sono invece calcio e musica i grimaldelli per la libertà. Sul primo fronte i simboli della battaglia sono Nadia Hadim – medico in fuga da Herat, ex centravanti del Milan e attualmente militante nell’Hammarby in Svezia, figlia di un generale dell’esercito ucciso dai talebani quando lei aveva nove anni – e Khalida Popal, naturalizzata danese ed ex stella della Nazionale. Dal 2021 la squadra femminile afghana non esiste più, cancellata dalla sharia dei Talebani. Popal è stata fondamentale per mettere in salvo le giocatrici senior e junior con i loro parenti, in tutto 300 persone. Sottratte alla morsa del regime da cui lei era scappata nel 2011 perché diventata un bersaglio mobile.

L’attivismo delle calciatrici famose ha portato quest’anno alla nascita – col benestare della Federazione calcistica internazionale (Fifa) – dell’Afghan Women Refugee Team. Una selezione composta da 80 rifugiate in giro per il mondo. Non essendo affiliata ad alcuna federazione, per ora la squadra può disputare soltanto amichevoli. La sfida è quella di convincere proprio la Fifa a riconoscerla come Nazionale. «Abbiamo perso quattro anni nei quali avremmo potuto spingere il mondo verso un cambiamento più grande per le donne afghane» dicono le giocatrici. «Vogliamo poter tornare a lottare per un Mondiale, per la Coppa d’Asia e le Olimpiadi. Siamo fiduciose che la Fifa possa finalmente modificare il proprio statuto e sostenerci nella battaglia».

La musica è l’altra arma potente. Le donne afghane fuori dal Paese (ma qualcuna anche all’interno) stanno sfidando il divieto di far sentire la propria voce. Pubblicando video in cui cantano “Bella ciao” come un inno alla resistenza. A trainare la protesta è Sonita Alizadeh, una delle prime a fuggire dall’Afghanistan dopo che per due volte – a 10 e 16 anni – la famiglia ha provato a venderla per un matrimonio combinato. «Faccio rap su queste tematiche perché le ragazze così giovani non hanno voce» spiega. E, ironia della sorte, ha iniziato a farlo in un altro Paese dove non potrebbe, ovvero l’Iran. Mentre ancora ragazzina imparava a leggere e scrivere in una scuola per rifugiati gestita da un’organizzazione non governativa.

«Quel mio urlo di rabbia oggi ha innescato un movimento di ribellione: proprio quello che volevo». Alizadeh oggi vive negli Usa. Chi invece sta sfruttando la popolarità per ricordare cosa succede nel suo Paese d’origine è Meira Omar. Fuggita con la famiglia da Kabul, oggi risiede in Svezia, dov’è divenuta popolare dopo aver preso parte a un popolare dating show su Netflix. Il suo debutto come cantante (il singolo “Hush Hush” ha preso parte al Melodifestivalen) le ha consentito di fare ancor di più da cassa di risonanza. E oggi è una delle voci più autorevoli della battaglia per la libertà delle donne afghane.

Di Emanuele Lombardini

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