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C’è un sindaco a Kabul

La strana coabitazione di un ex pilota afghano americano con i talebani.
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Mohammad Daoud Sultanzoy era un pilota di aerei di linea negli Usa quando l’11 settembre 2001 seppe della morte dei suoi colleghi nell’attentato sponsorizzato da Osama Bin Laden. Al funerale di uno di questi, sentì che il suo dovere come afghano americano era quello di tornare in patria per aiutarla ad allontanarsi dall’oscurantismo e dal terrorismo: era arrivato nella terra delle opportunità nel 1970 – quando Ariana, la compagnia di bandiera afghana, era affiliata con la Pan Am Airways – ma nemmeno trent’anni di vita americana erano riusciti a fargli dimenticare il suo Paese natio.

Tornato nelle terre della tribù Ghilji, la ‘gente delle colline’, per diversi anni li ha rappresentati nel Parlamento nazionale e si è persino candidato alla presidenza nelle elezioni del 2014 – divenute tristemente famose per i pesanti brogli – prendendo una manciata di voti. Paradossalmente è proprio quel fallimento elettorale che ne certificò l’alterità rispetto al resto della classe dirigente: totalmente estraneo a quella corruzione sistematica che ha afflitto la Repubblica Islamica dell’Afghanistan negli ultimi lustri, con il suo misero risultato testimoniò l’esistenza di un residuo vuoto di opinione tra i suoi connazionali.

Il presidente Ghani – quello scappato negli Emirati Arabi Uniti poco prima che i talebani entrassero a Kabul – aveva nominato Daoud sindaco della capitale solo nell’aprile del 2020, quando il collasso non era imminente ma già si capiva che il nuovo inquilino della Casa Bianca non avrebbe stracciato l’accordo di Doha: forse un segnale di ravvedimento, ma chiaramente troppo poco e troppo tardi; sicuramente una delle due cose che ha fatto per il bene di Kabul, l’altra è stata quando l’ha dichiarata città aperta per non farla distruggere dai combattimenti.

I talebani furono i primi a capirne l’importanza e quando la cleptocrazia di Ghani si sbriciolò recapitarono a Daoud un messaggio: «Rimani ad aiutarci a gestire la città e garantiremo la tua sicurezza». Ora, nell’Emirato talebano, in bilico nel concretizzarsi in una mullahcrazia terroristica, è questo ex pilota d’aerei che permette a Kabul di non essere sommersa dai rifiuti e tagliata dalle forniture di acqua e elettricità. Inserito in una situazione perfettamente coerente nel grottesco contesto dell’Afghanistan attuale, gestisce infatti la città affiancato dal talebano Hamidullah Nomani che ne fu sindaco fino al 2001, in una sorta di stage di aggiornamento delle novità degli ultimi vent’anni.

Quando i talebani presero Kabul nel 1996 la città era stata rasa al suolo dalla guerra tra i mujahidin che se la contendevano: i cani erano soliti sbocconcellare i resti umani nelle strade e mancava tutto; ora è invece una città di 4 milioni e mezzo di abitanti, viva e vibrante nonostante il regime change, e i vincitori vogliono dimostrare di saperla far funzionare, per non perdere la pace e creare le premesse per una nuova guerra civile.

Cosa lo trattenga lì, lontano dalla famiglia già in salvo all’estero, è difficile da capire: probabilmente un gran spirito di sacrificio unito a un ammirabile senso del dovere, ma per l’ennesima volta troviamo confermate le parole di Trinculo ne “La tempesta” di Shakespeare: «La sventura costringe l’uomo a far la conoscenza di ben strani compagni di letto».

di Camillo Bosco 

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