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Cibo per medicine

I nostri inviati Giorgio Provinciali e Alla Perdei ci portano a Novhorod–Siverskyj, a pochi metri dai russi

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I nostri inviati Giorgio Provinciali e Alla Perdei ci portano a Novhorod–Siverskyj, a pochi metri dai russi

Novhorod–Siverskyj – Oltre 330 chilometri di distese innevate separano Kyiv dal luogo da cui scriviamo, fino al 2020 la città d’importanza oblast’ più a Nord di tutta l’Ucraina. Poco prima del nostro arrivo, un cartello stradale ci ha ricordato che la capitale russa si trova oltre il confine di fronte a noi, grossomodo al doppio della distanza che abbiamo percorso per allontanarci da quella ucraina. Nelle ultime 24 ore le guardie di frontiera hanno registrato 40 esplosioni causate dai colpi d’artiglieria sparati da cannoni e mortai russi. Le comunità di Semenivka e Snovsk hanno riportato i danni maggiori ma tutta l’area in cui ci troviamo è tenuta sotto tiro dalle truppe russe di stanza nella regione di Briansk.

Per quanto proibitiva sia questa condizione possiamo ritenerci fortunati, perché le zone sul fronte opposto a questo -da cui scrivevamo fino a qualche ora fa- di colpi simili ne hanno ricevuti ben 253, distribuiti nello stesso lasso di tempo in 12 insediamenti lungo il versante meridionale di Zaporizhzhia. A Novhorod–Siverskyj il freddo è davvero pungente: per spingerci oltre il recinto che delimita la scuola locale bombardata dai russi abbiamo dovuto camminare a lungo con la neve ben sopra le ginocchia.

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Dopo aver circondato e assediato la città (senza mai occuparla realmente, come invece riportano erroneamente molti think tank), i russi in ritirata hanno sganciato un missile sul ginnasio più antico della zona, convinti che al suo interno avrebbero potuto nascondersi alcuni soldati ucraini. «L’onda d’urto ha mandato in frantumi tutti i vetri del mio negozio, abbattendo gli scaffali coi prodotti. I segni che vedete sui muri esterni (parliamo di centinaia di rientranze nel cemento, grandi abbastanza da farci stare un pugno chiuso, ndr.) sono stati causati dalle schegge. Dopo aver rotto l’assedio, i russi in ritirata hanno scelto di distruggere ciò che non potranno mai avere». Mostrandoci la bilancia d’epoca sovietica miracolosamente illesa che la sua famiglia usa da mezzo secolo nel negozio d’alimentari di fronte al liceo distrutto, Svitlana ricorda l’oppressione e la persecuzione patita durante l’accerchiamento: «mia madre è diabetica. Per implorare una dose d’insulina dovevamo sottoscrivere lunghe liste d’attesa e poi attraversare noi stessi il fiume gelato durante la distribuzione dei pochi farmaci passati dagli occupanti. Certe volte abbiamo dovuto rimanere in attesa oltre tre giorni o barattare generi alimentari, per strappare alla morte parenti e amici malati. È stato estremamente umiliante». Come potrete vedere nel nostro video reportage, all’interno della scuola di militari non c’era neanche l’ombra. Negli spogliatoi della palestra sono ancora presenti alcuni vestiti degli studenti e nelle cucine della mensa scolastica è segnato il numero di ragazzi -divisi per classe e sezione- a cui dover preparare da mangiare. Molte abitazioni private intorno al parco che ospitava la scuola di Novhorod-Siverskyj sono tuttora gravemente deturpate: ad alcune manca persino il tetto e metà della facciata.

Mostrandoci la grande mappa del raiòn appesa nella parete del suo ufficio, il sindaco Serhij Serhienko passa in rassegna una per una le zone più tartassate dai colpi d’artiglieria russi, invitandoci a vedere di persona quanto sia difficile vivere circondati da campi minati e sotto costante pressione, con la minaccia d’essere nuovamente invasi. L’accoglienza a noi riservata dalle autorità locali è davvero calorosa e gratificante. Oltre a un giornalista inglese, capiamo che nessun altro collega s’è spinto fino a così pochi metri dai russi. Offrendoci un caffè e dei biscotti, Serhij ci porge un assaggio del buonissimo formaggio locale, che continua a essere prodotto nonostante il solo portare le mucche al pascolo sia un’impresa che richiede una buona dose di coraggio. Discorrendo della situazione in Occidente, ci è parso quantomeno rispettoso -per non dire doveroso- esimerci dal nominare la parola ‘stanchezza’.

Di Alla Perdei e Giorgio Provinciali

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