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Come si invade un altro Stato

Pavel Filatyev, invasore pentito, racconta come la sua unità entrò in Ucraina.

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«Da domani il vostro salario giornaliero sarà di 69 dollari» annuncia il comandante all’unità di paracadutisti in cui milita Pavel Filatyev. Così, il 23 febbraio 2021, tutti i soldati capiscono che le cose si fanno serie. Si tratta di un aumento di più di duemila rubli al mese, simile all’indennità di trattamento per i soldati al fronte.

Hanno appena passato un mese di finto campo d’addestramento, dove il maggior brivido provato è stato farsi quasi investire per una disputa tra ufficiali su un posto di blocco o ricevere l’agognata arma d’ordinanza. Per più di quattro mesi, cioè dalla data di firma del contratto d’arruolamento, Pavel non ha infatti avuto un’arma assegnata e si è dovuto ingegnare persino per poter trovare dei proiettili, quelle poche volte in cui sono stati al poligono di tiro. «Munizioni e cibo sono un problema tuo» aveva risposto lapidario l’ufficiale a cui le aveva richieste, confermando la sensazione di completa anarchia che il rozzo esercito del criminale Putin aveva trasmesso al veterano. Per aggiungere la beffa al danno l’arma con cui avrebbe dovuto difendere la Madrepatria gli era stata consegnata arrugginita e con la tracolla rotta ma, dati i precedenti, aveva preferito ripararla al meglio delle sue capacità piuttosto che chiederne un’altra.

Dopo l’annuncio dell’aumento, Pavel e i suoi commilitoni salgono su dei camion Kamaz per avvicinarsi al confine e nell’attesa si addormentano sui veicoli. Alle quattro del mattino li sveglia però una cacofonia di rombi: una ventina di chilometri più avanti le artiglierie russe sparano in direzione dell’Ucraina. «È iniziata», mormorano sommessamente i soldati ammonticchiati nei cassonati, mentre i fuochi fatui delle loro sigarette si uniscono ai lampi lontani dei pezzi da 122 millimetri. L’intera unità aveva lasciato i propri cellulari al campo e ricostruire cosa stesse accadendo era quindi impossibile. «Come qualunque militare sano di mente, avevo un giudizio negativo verso la guerra» precisa Pavel«anche se la ritenevo indispensabile per impedire orrori come l’invasione mongola o quella nazista. Ma la trovavo illogica contro l’Ucraina così come ero stato contrario all’annessione della Crimea e alla connivenza con i separatisti».

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La famiglia di Pavel, oltretutto, era d’origini ucraine. «Mio nonno, di cui porto il nome, combatté nella prima guerra mondiale perdendo l’olfatto per i gas velenosi tedeschi e al suo ritorno in Ucraina fu privato dei suoi averi e deportato in Siberia. Io cento anni dopo mi sono ritrovato invece a invadere la terra dei miei avi». Prima lo Zar, poi il Segretario, ora il Presidente: un’ininterrotta linea di despoti ha segnato l’esistenza di Pavel.

«Attraversando il confine vidi il sangue delle guardie di confine ucraine sparso sulle garitte e allora mi accorsi che era tutto reale, molto reale» – scrive il russo – «e vidi la grande colonna dei nostri mezzi dividersi per raggiungere i diversi obiettivi nel territorio ucraino». Ricorda il reduce, ora in esilio: «Sentii una scarica di adrenalina seguita dalla grande e inusuale chiarezza di pensiero: non avevo capito un cazzo». Così, nel buio della notte e della loro coscienza, le prime Z truppen superarono il confine della Terra dei Girasoli.

Di Camillo Bosco

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