Chernivtsi – Mentre il cielo sopra di noi veniva graffiato dai traccianti dei missili russi, siamo riusciti a trovare riparo in un bunker d’epoca sovietica. Una lunga scalinata, irta e un po’ malconcia, introduce a un dedalo di cunicoli sotterranei che in questi mesi hanno ospitato centinaia di civili in fuga dalla furia rascista. Vivissima testimonianza di quella presenza, i loro muri sono vere e proprie opere d’arte: dipinti e raffigurazioni, iscrizioni ed epigrafi di rara bellezza documentano ore e ore di permanenza, resistenza, speranza.
«C’è il wi-fi. L’abbiamo messo per non restare completamente tagliati fuori dal mondo e poter comunicare con i nostri cari, fargli sapere che siamo vivi e stiamo bene» spiega una ragazza quando mi vede prendere in mano lo smartphone. Il fatto stesso che qualche metro sopra quell’alveo di tunnel (rivestiti dalle griglie arrugginite di punti luce messi più di mezzo secolo fa) scorrano chilometri di fibra ottica contestualizza perfettamente l’insensatezza di un’aggressione criminale, mossa con mezzi da secolo scorso contro un Paese moderno, libero e democratico.
Accanto a me siede una coppia un po’ attempata, proveniente da Kharkiv. Per ingannare l’attesa i due coniugi accettano di rilasciare una breve intervista filmata in cui raccontano la loro esperienza a chi vive in Italia. «Prima di dire qualsiasi altra cosa vogliamo ringraziare il vostro Paese. Moltissimi volontari e famiglie ci hanno aiutato sia a Kharkiv che qui e gliene saremo sempre grati. Inoltre l’Italia è fra quei Paesi che ci hanno sostenuto militarmente ed è anche grazie a quel supporto se il Male non ha vinto». Liudmyla e il marito sono rimasti barricati in casa per dieci giorni quando Kharkiv fu oggetto di una violentissima battaglia nel corso della quale i blindati russi raggiunsero il centro della città. Persino il palazzo comunale fu teatro degli scontri, eppure non è mai caduta: «È stato il primo fallimento di Mosca. Trovandosi a meno di 40 km dalla Federazione Russa ed essendo a maggioranza russofona, Putin aveva pensato che i suoi carri avrebbero trovato a Kharkiv un’autostrada libera verso Kyiv. Sbagliò di grosso, perché neppure nei mesi successivi è mai riuscita a prenderla».
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Liudmyla racconta di spari che le arrivarono persino dentro casa così come dei giorni di disperazione – senza acqua, gas, elettricità e provviste – vissuti completamente all’oscuro di cosa stesse succedendo nel resto del Paese. «Nei pochi momenti in cui la linea telefonica tornò in funzione riuscimmo a metterci d’accordo con i soccorritori che, incuranti del pericolo, vennero a prenderci con diversi furgoni». Il marito di Liudmyla descrive una fuga effettuata sotto una pioggia bombe, schegge e proiettili così vicini da poterne sentire il sibilo accanto alle orecchie.
Ospitati in una zona più sicura, i due coniugi hanno realizzato a mano migliaia di candele riscaldanti, consegnate poi dai volontari ai militari al fronte. «In quelle candele ci sono la luce della speranza e il calore del nostro sostegno». All’uscita dal bunker i due coniugi mi diranno di essere in partenza proprio in quel momento per la loro città. Quando chiederò loro se non abbiano paura (ancora pochi istanti prima Kharkiv era stata bombardata), la coppia risponderà che non è più il momento di nascondersi ma di vivere, perché la peggior sconfitta di chi li vorrebbe morti è vederli vivi.
Di Giorgio Provinciali
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