La realtà della guerra in Ucraina e il pregiudizio
Una guerra come quella in Ucraina non si racconta scorrendo la home dei social o rilanciando agenzie e think tank e che l’incipit
La realtà della guerra in Ucraina e il pregiudizio
Una guerra come quella in Ucraina non si racconta scorrendo la home dei social o rilanciando agenzie e think tank e che l’incipit
La realtà della guerra in Ucraina e il pregiudizio
Una guerra come quella in Ucraina non si racconta scorrendo la home dei social o rilanciando agenzie e think tank e che l’incipit
Una guerra come quella in Ucraina non si racconta scorrendo la home dei social o rilanciando agenzie e think tank e che l’incipit
Sloviansk – “Kiev ha perso, è ora di ammetterlo. Prolungare l’agonia costa troppe vite”; “In attesa della caduta per proteggere Kiev alzano i denti di drago”; “Kiev collassa ma la Nato batte cassa: soldi e armi per 5 anni”; “I russi sfondano e avanzano ovunque”; “Kharkiv in ginocchio: ucraini in fuga” sono solo alcuni dei titoli che spiccavano nelle edicole italiane nei giorni scorsi. In netta controtendenza, noi abbiamo invece spiegato che da Kharkiv nessuno è fuggito ma al contrario che lì si stanno accogliendo gli sfollati dai territori più a Nord, che i russi non hanno affatto sfondato ma sono stati invece contenuti nella cosiddetta ‘zona grigia’ e infine che la loro offensiva è fallita. Altri titoli meno ultimativi lasciano comunque in questi giorni trasparire l’ineluttabilità della capitolazione ucraina e il rifiuto del suo presidente di accettare «la pace occidentale», aprendo all’imminente invasione russa dell’oblast’ di Sumy di cui noi scriviamo da almeno sei mesi. Siamo stati giornalisti migliori? No. Disponevamo d’informazioni riservate? No. Semplicemente, abbiamo riportato dal campo ciò che vedevamo, sapendo che una guerra non si racconta scorrendo la home dei social o rilanciando agenzie e think tank e che l’incipit «dal nostro inviato a Kyiv» non dice nulla se gli eventi narrati si trovano mille chilometri oltre.
Il fotogiornalista pavese Andrea Rocchelli fu tra i primi a farlo, coi suoi scatti unici e taglienti, documentando dal campo le condizioni dei civili durante l’invasione russa del Donbas. Doveroso ricordarlo a dieci anni esatti dalla sua scomparsa, avvenuta nella città da cui corrispondiamo oggi per questo giornale nei pressi della ferrovia che all’epoca segnava la linea del fronte tra le milizie separatiste sostenute dai russi e quelle regolari di Kyiv (che nei mesi seguenti avrebbero liberato Sloviansk). Era il 24 maggio 2014 e insieme al fotoreporter italiano moriva anche il dissidente russo, giornalista e attivista per i diritti umani Andrej Mironov. In quel caso i titoli colpevolizzanti e inquisitori della stampa italiana giocarono un ruolo determinante nelle indagini, che portarono all’affrettata conclusione che il killer dei due fosse tale Vitalij Markiv, allora soldato semplice ucraino di cittadinanza italiana in servizio sulla collina di Karachun da cui la Guardia nazionale in cui era inquadrato teneva a tiro i terroristi russi. Un articolo edito dal “Corriere.it” – in cui la giornalista Ilaria Morani rivelava la presunta ammissione di colpevolezza di Markiv sulla base d’una telefonata mai registrata – fu posto agli atti dalla Corte del Tribunale di Pavia, rivelandosi decisivo per la condanna a 24 anni di reclusione del giovane soldato ucraino. Emma Bonino e i Radicali Italiani seguirono subito il caso fino all’assoluzione in secondo grado e poi in Cassazione di Markiv, che nel frattempo aveva però scontato ingiustamente una pena detentiva di quasi quattro anni.
Dall’alto della collina di Karachun – in cui nessun inquirente né il Ris di Parma (chiamato in causa per una perizia a distanza) sono mai venuti – appare quantomeno dubbio il fatto stesso che possano esser stati gli ucraini a colpire il fossato posto alle spalle del treno in cui si trovavano – a oltre due chilometri di distanza – Rocchelli e Mironov. Il fatto che gli stessi si trovassero in abiti civili e senza identificativi che li distinguessero in quanto “Press” (operatori della stampa) in un luogo posto proprio di fronte alla fabbrica Zeus Ceramica occupata da soldati russi in uniforme senza insegne e miliziani filorussi in abiti civili, rende ancor più improbabile la tesi secondo cui un soldato ucraino possa aver aperto intenzionalmente il fuoco contro un giornalista. Basta trovarsi qui per capirlo.
La superficialità con cui la stampa e la magistratura italiana trattarono quel caso fa da contraltare alla perizia dimostrata invece da chi ebbe il coraggio d’effettuare rilevazioni e condurre indagini dal campo, con tutti i rischi che ne conseguono. Il lavoro svolto da Cristiano Tinazzi nel suo “Crossfire” è in tal senso a dir poco encomiabile: effettuando rilevamenti orografici con l’ausilio di droni e ricostruendo la mappatura in 3D dei territori di Sloviansk in cui si consumò la tragedia, il giornalista italiano è stato infatti in grado di ripercorrere tutta la vicenda giudiziaria restituendo una visione fedele alla realtà di quelle circostanze.
Sono evidenti i danni procurati dagli otto anni di superficialità e pressapochismo con cui è stata descritta l’invasione dell’Ucraina da quella parte di stampa che seppe spacciarla per guerra civile. Dell’Ucraina noi scriviamo quel che vediamo e viviamo; altri purtroppo la raccontano come una sorta di favola nera da un Paese lontano.
di Alla Pardei e Giorgio Provinciali
La Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
Leggi anche