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Un silenzio assordante

Il racconto dall’Ucraina di Ivan e Alla, fratello e sorella che lottano in prima linea per difendere il proprio Paese dall’invasione russa. Le loro parole e i loro volti raccontano l’inferno e portano i segni di 280 giorni vissuti tra il fango delle trincee e le macerie di città un tempo piene di vita e oggi ridotte in cenere
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Un silenzio assordante

Il racconto dall’Ucraina di Ivan e Alla, fratello e sorella che lottano in prima linea per difendere il proprio Paese dall’invasione russa. Le loro parole e i loro volti raccontano l’inferno e portano i segni di 280 giorni vissuti tra il fango delle trincee e le macerie di città un tempo piene di vita e oggi ridotte in cenere
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Un silenzio assordante

Il racconto dall’Ucraina di Ivan e Alla, fratello e sorella che lottano in prima linea per difendere il proprio Paese dall’invasione russa. Le loro parole e i loro volti raccontano l’inferno e portano i segni di 280 giorni vissuti tra il fango delle trincee e le macerie di città un tempo piene di vita e oggi ridotte in cenere
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Il racconto dall’Ucraina di Ivan e Alla, fratello e sorella che lottano in prima linea per difendere il proprio Paese dall’invasione russa. Le loro parole e i loro volti raccontano l’inferno e portano i segni di 280 giorni vissuti tra il fango delle trincee e le macerie di città un tempo piene di vita e oggi ridotte in cenere
Non molto tempo fa abbiamo scritto di Ivan e Alla, fratello e sorella ucraini impegnati nella difesa del proprio Paese dall’aggressione russa. Lasciando il proprio lavoro di modella, Alla era rientrata dall’Italia in Ucraina all’inizio dello scorso febbraio, quando ormai era chiaro che avrebbe avuto luogo quella criminale invasione, più volte preannunciata dall’intelligence americana e altrettanto puntualmente smentita dal Cremlino. Ivan prestava servizio nella Guardia forestale, ma avendo già assolto gli obblighi di leva da lì a poco sarebbe stato precettato nell’esercito. Durante il lungo periodo di lontananza, Alla si è unita come volontaria ai partigiani della resistenza, mentre Ivan ha preso parte a tutte le operazioni più difficili: prima sul fronte caldo di Kherson, poi su quelli di Kharkiv, Balaklija, Izium e ora Bakhmut, nella contesa oblast’ di Donetsk. Dopo i dieci mesi più duri della loro vita, i due fratelli si sono riabbracciati. I loro volti raccontano l’inferno e portano i segni di 280 giorni vissuti tra il fango delle trincee e le macerie di città un tempo piene di vita e oggi ridotte in cenere. Non a caso, diversi volontari americani impegnati qui come foreign fighter riferiscono che un giorno in Ucraina sia più duro di trenta e più vissuti in Afghanistan. Nella quiete della loro casa fuori città, Ivan è scioccato dall’assenza di rumori: «Non ero più abituato al silenzio. Mi mette quasi a disagio. Nel silenzio trovo la misura del tempo. Corrono i pensieri, ricordo. Mi assale un senso d’angoscia e d’inquietudine. Questo silenzio mi fa scoppiare la testa» confida. Il suo sguardo è indefinito e impenetrabile. Le esplosioni, gli allarmi, il frastuono dei generatori e le voci dei commilitoni che si danno il cambio senza tregua lo hanno accompagnato giorno e notte per quasi un anno. Descrive campi sterminati, pieni di cadaveri nemici lasciati a terra a marcire d’estate e in inverno. «Dai giovanissimi ai molto anziani, i russi mandano i loro a morire spesso senza il benché minimo addestramento. Alcuni durano pochi minuti. Quando non spariamo noi, altri russi lo fanno dalle retrovie contro i commilitoni che cercano di defilarsi dalle prime linee». Spiega che nessuno va a prendere questi corpi, che rimangono abbandonati nelle terre contese tra i due schieramenti. Talvolta inviano qualcuno a bruciare solo i cadaveri dei graduati, per non lasciarli alla mercé di cani, lupi e uccelli. I segni sul volto di Ivan descrivono la vita di trincea almeno quanto le sue parole. Una scheggia di granata gli ha segnato l’arcata sopracciliare. Sua sorella Alla lo stringe a sé con tutto il cuore che ha e gli occhi gonfi di gioia. Per una strana coincidenza del destino, il suo viso è segnato nello stesso punto di quello di Ivan: qualche tempo prima, un filo spinato per poco non l’ha accecata. Dopo essersi scambiati le chevròn (mostrine di velcro con le effigi ucraine) indossate sulle rispettive divise, ora hanno qualche ora d’elettricità per aiutare i genitori anziani a finire di scavare un pozzo, giacché dopo i bombardamenti l’acqua corrente non scorre più. Poi ciascuno tornerà a battersi, per una libertà anche nostra, indossando la chevròn dell’altro. Di Giorgio Provinciali

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