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Mariupol come al macello

La carneficina all’interno dell’ospedale di Mariupol vista dagli occhi di un’infermiera, Viktoriya Pashkova
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Mariupol come al macello

La carneficina all’interno dell’ospedale di Mariupol vista dagli occhi di un’infermiera, Viktoriya Pashkova
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Mariupol come al macello

La carneficina all’interno dell’ospedale di Mariupol vista dagli occhi di un’infermiera, Viktoriya Pashkova
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La carneficina all’interno dell’ospedale di Mariupol vista dagli occhi di un’infermiera, Viktoriya Pashkova
Kyiv – Insieme al marito, Viktoriya Pashkova presta servizio come infermiera presso l’ospedale regionale di Mariupol. Come ogni mattina, alle 8 del 24 febbraio giunge al lavoro: dopo neanche venti minuti inizia una processione di ambulanze cariche di feriti. A fine giornata ne conterà più di cinquanta, quasi tutti dilaniati da esplosioni. Essendo di Makiyivka (un sobborgo di Donetsk), conosce già gli orrori della guerra. Per tutto il 2014 e sino all’inizio del 2015 si trovava lì quando la sua città natale fu occupata dai russi. Per tre giorni di fila resta operativa senza dormire neanche un minuto. A corto di personale medico con cui darsi il cambio, dopo un giorno di riposo la ragazza rientra il 28 e resta attiva sino al 3 marzo riposando di tanto in tanto in corsia. Sotto i suoi occhi si profila una carneficina. «L’onda d’urto di alcune esplosioni è stata così forte da distruggere le pareti e muovere lettini e barelle con sopra i pazienti, tanto da dover evacuare anche le terapie intensive perché troppo esposte» spiega Viktoriya. «Per proteggerci, abbiamo messo i sacchi di sabbia alle finestre e – seguendo le istruzioni trasmesse in tv – abbiamo spostato tutti nei corridoi di modo che tra i feriti e le pareti esterne vi fossero almeno due muri. Oltre all’acqua, anche la corrente elettrica è venuta meno. I nostri camici erano zuppi di sangue, come fossimo dentro un mattatoio». Tutti i sistemi di ventilazione assistita hanno retto solo per breve tempo, alimentati dai dispositivi di backup energetico. «L’orrore vissuto nel 2014 s’è materializzato avvolgendo le nostre vite in un incubo. Ho fatto di tutto per contenere gli attacchi di panico già avuti all’epoca. Dopo una settimana di servizio ininterrotto, mio marito mi ha portata di peso in un bunker antiatomico d’epoca sovietica situato sotto l’ospedale. Un luogo spettrale, freddo e buio. Sotto sedativi ho dormito 24 ore di fila finché mi ha svegliata Dmytro Pasternak, collega traumatologo». Nell’epicentro di un uragano di fuoco e senza contatti con l’esterno, Viktoriya medici e feriti perdono la cognizione del tempo e dello spazio. Persone sventrate, senza braccia e gambe implorano aiuto sui marciapiedi. Gli ospedali sono distrutti e i medici iniziano a praticare interventi delicati anche all’interno delle ambulanze: amputazioni, operazioni al torace e alla testa. Viktoriya e Dmytro trovano riparo presso l’ospedale oncologico finché anch’esso crolla con centinaia di pazienti all’interno, poi si rifugiano presso la clinica di maternità. Durante un delicato intervento un’esplosione li scaraventa dalla sala operatoria al corridoio. Sotto le macerie dell’edificio collassato i due credono che quella sarà la loro tomba. La neve si posa sui loro volti. Accanto a loro un cratere di almeno dieci metri di diametro. «C’erano così tanti cadaveri da non poterci muovere. Li abbiamo avvolti nelle lenzuola e disposti meglio che potevamo. Non dimenticherò mai le incubatrici con dentro i corpicini senza vita dei neonati». Viktoriya racconta che nei giorni a seguire lei, Dmytro e il dottor Serhey Oleksandrovych sono riusciti ad allestire una sorta di bunker ospedaliero finché il 16 marzo pure quello viene distrutto dai missili russi. «Senza radiografie e macchinari abbiamo tastato a mano articolazioni e addomi dei feriti. Abbiamo praticato amputazioni senza anestesia e lottato contro le infezioni. Costretti a scegliere, abbiamo dato la priorità ai bambini». ДЕТИ (bambini): neppure questa parola scritta nella loro lingua ha fermato la furia omicida russa. di Giorgio Provinciali

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