La penna cade sul tavolo con uno sbuffo del suo proprietario, il criminale Putin. Il bielorusso Aljaksandr Lukašėnka si gonfia e annaspa, gesticolando a palmi in aria il suo disappunto nei confronti dell’omologo armeno. A sua volta il kazako Qasym-Jomart Toqaev si mostra incuriosito dal gustoso fuori programma antirusso. «L’Armenia non intende firmare la dichiarazione finale di questa riunione del Csto» ha appena dichiarato il suo primo ministro Nikol Pashinyan. Ed è subito scandalo. Si tratta di una decisione inaudita dal punto di vista geopolitico: da quando si dichiarò indipendente dall’Urss nel 1990, la Repubblica di Armenia è sempre stata legata all’economia e all’apparato militare russi. Un’intesa che le permise la vittoria nella guerra armeno-azera del 1992 per il controllo della regione dell’Artsakh.
Tuttavia ora il vicino Azerbaigian è ben capace di sottomettere l’esercito di Erevan, com’è accaduto in questo stesso anno. Nel mezzo di difficoltà atroci era partita quindi dalla capitale armena una richiesta d’aiuto al Csto – la Nato russa – per l’attivazione della clausola di mutua difesa. Dissanguata in Ucraina, Mosca ha però rifiutato di accorrere in difesa dell’alleato in crisi provocando una delusione profonda negli armeni, costretti così a trovare negli Stati Uniti l’interlocutore super partes capace di fermare il disastro ai loro confini. Umiliazione chiama umiliazione e Pashinyan ha quindi deciso di restituire lo schiaffo, senza che sia ancora chiaro quale nume tutelare possa contenere i fallimenti dell’attuale inquilino del Cremlino.
Questo smacco diplomatico è infatti il segno dell’annientamento dell’autorevolezza politica della Federazione Russa, unica possibile conseguenza del medesimo annichilimento che stanno subendo le sue formazioni militari in Ucraina. Se l’Unione Sovietica poteva contare su una potenza politica – alternativa, supposta, al capitalismo liberale – nonché culturale e scientifica, lo Stato putiniano si è tuttavia puntellato su una retorica di potere e violenza laccata dall’oro proveniente dalla vendita delle materie prime. La patina dorata è stata però quasi tutta sverniciata dalle sanzioni internazionali e il principale vettore di quella violenza – l’armata russa – si va devastando ogni giorno di più nel Paese dei Girasoli. Il potere siloviko è rimasto quindi nudo e nolente persino a contare i corpi dei suoi caduti, nella speranza di evitare lo scorno della sua arroganza.
Non ha questo tatto invece Kyïv, che condivide in Rete i video nei quali i suoi droni sganciano granate sulle buche dove i mobiki (soldati mobilitati) si affastellano per sfuggire al gelo invernale, comunque tanto intirizziti da muoversi appena dopo gli scoppi. Uno di questi è il famigerato comandante “Cherdash” della Wagner, il cui gruppo è stato appena spazzato via nel corso di un ennesimo vano assalto alla roccaforte giallazzurra di Bachmut. Quando scorge il drone ucraino sopra di lui, piuttosto che arrendersi il “wagnerista” si punta il fucile al petto, uccidendosi. Così il suicidio desolante di un uomo feroce finisce su Internet quale ulteriore prova delle immani perdite che si sta infliggendo il popolo russo, nel tentativo di dimostrare al mondo di avere il potere di portare indietro le lancette della Storia. Senza riuscirci.
Di Camillo Bosco
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