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Ucraina, i bambini e lo zainetto di sicurezza

I bambini in Ucraina hanno due zainetti: uno con le matite e i quaderni e l’altro col necessario per poter trascorrere diverso tempo nel bunker allestito per legge dalla scuola

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Ucraina, i bambini e lo zainetto di sicurezza

I bambini in Ucraina hanno due zainetti: uno con le matite e i quaderni e l’altro col necessario per poter trascorrere diverso tempo nel bunker allestito per legge dalla scuola

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Ucraina, i bambini e lo zainetto di sicurezza

I bambini in Ucraina hanno due zainetti: uno con le matite e i quaderni e l’altro col necessario per poter trascorrere diverso tempo nel bunker allestito per legge dalla scuola

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I bambini in Ucraina hanno due zainetti: uno con le matite e i quaderni e l’altro col necessario per poter trascorrere diverso tempo nel bunker allestito per legge dalla scuola

Pochaiv – Due anni fa scrivevo su queste pagine la storia del piccolo Sasha, strappato alle macerie dalla zia Alla sotto una pioggia di fuoco mentre le bombe russe sgretolavano colpo su colpo la sua città natale. Tutti gli uomini adulti della sua famiglia erano al fronte per difendere il Paese, mentre la madre e alcune zie si davano il cambio lavorando a turno all’estero per racimolare qualcosa. Per un breve periodo il bimbo fu assegnato a una struttura gestita dall’Uoc-Mp (Ukrainian Orthodox Church of the Moscow Patriarchate), rivelatasi poi un covo di propagandisti russi in abito talare tanto da esser messa al bando per legge. Rimasto solo fu quindi affidato alla zia Alla, che seppe tenerlo gelosamente in consegna per tutti questi mesi fino ad accompagnarlo l’altro ieri al suo primo giorno di scuola. Al suo ingresso nella classe di prima elementare il piccolo Sasha aveva un mazzo di fiori per la maestra e due zainetti: uno con le matite colorate e i quaderni e l’altro col necessario per poter trascorrere diverso tempo nel bunker allestito per legge dalla scuola, in caso d’attacco russo.

Una bottiglietta d’acqua potabile; un power bank; nome, cognome e patronimico scritti a chiare lettere su un foglio assieme al gruppo sanguigno e a tutte le informazioni di contatto; una barretta energetica; una torcia elettrica; il telefono cellulare e un giocattolo. Questa è la dotazione standard in tempo di guerra per ogni bambino a cui sia consentito assistere alle lezioni in presenza. Ad almeno un milione e 600mila ragazzi, infatti, tutto ciò non è neppure concesso a causa della breve distanza fra i banchi di scuola e la linea del fronte. Altri studenti possono frequentare gli studi in presenza solo a turno, dandosi il cambio con altri che il giorno prima avevano frequentato i corsi a distanza, in modo da poter godere d’un privilegio che in Ucraina non è affatto scontato.

Se per legge ogni scuola del Paese dev’esser dotata d’un proprio bunker o trovarsi in prossimità di non più di cento metri dal primo servibile, alcune strutture sono esse stesse rifugi blindati a prova di bomba. È il caso delle scuole di Kharkiv, che ho visitato proprio con Alla Perdei e che ho in programma di collegare prossimamente con alcuni istituti scolastici italiani, per mettere in contatto studenti lontani fisicamente ma non nell’animo.

In questo clima surreale condizionato da un’emergenza ormai ordinaria, da quelle postazioni che l’Occidente impedisce sfacciatamente all’Ucraina di bersagliare, i terroristi russi hanno sparato missili e bombe d’ogni tipo contro le scuole di tutto il Paese. Mentre tre milioni di bambini – già duramente colpiti dal russkij mir, scampati alle deportazioni e alle bombe russe come il piccolo Sasha – s’approntavano speranzosi al loro primo giorno di scuola, i russi centravano infatti un orfanotrofio a Sumy, poi l’Università di Holosiivkskyj e altri istituti d’istruzione superiore travolti a Kharkiv e Kyiv dai frammenti d’oltre 35 missili e 23 droni, fino alla strage di ieri.

Quello andato in scena a Poltava è l’ultimo atto d’una tragedia immane che si sta consumando da 923 giorni col beneplacito di tutti coloro che con veti assurdi e restrizioni incompatibili col diritto internazionale stanno impedendo all’Ucraina di difendersi: 49 morti e 219 feriti è il bilancio provvisorio della mattanza di civili – più che altro minori – provocata da due missili balistici sparati dalle Forze armate delle Federazione Russa contro un istituto scolastico e un ospedale in centro città. È difficile spiegare il profondo senso di vergogna che si prova incrociando gli sguardi di chi da trenta mesi vede noi giornalisti come gli unici interlocutori fra tutto questo dolore e chi in Occidente potrebbe evitarlo. Ciò a cui stiamo assistendo è il contrario della lezione che avremmo dovuto imparare dalla Storia e poi insegnare proprio a scuola.

Vedere Putin accolto da una folla festante in Mongolia anziché dalle guardie che avrebbero dovuto ammanettarlo e consegnarlo ai giudici della Corte penale internazionale è l’ennesima riprova del fatto che la legge s’applica coi nemici e s’interpreta con gli amici. Sapere che perfino le autorità svizzere s’offrirebbero di «fare un’eccezione» allo Statuto di Roma (che hanno sottoscritto) purché un criminale partecipi a un negoziato di pace è un nonsenso logico: significa prendere il diritto internazionale e metterselo sotto i piedi. Sentir parlare di «timore d’escalation» mentre davanti ai nostri occhi scorrono fiumi di sangue, sapere i russi liberi di compiere un genocidio mentre a due ore d’aereo da qui ci s’interroga sul senso d’impedirlo significa non aver imparato nulla dalla Storia. L’unica linea rossa è quella tracciata dai russi col sangue di milioni d’innocenti. Per scorgerla non serve una buona vista ma la coscienza netta.

di Giorgio Provinciali

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