La laicità francese ha generato prodotti di grande valore. Ammirevoli. Ma quando la si riduce a simbologia può generare delle trappole. Come quella per cui si proibisce alle fanciulle, a scuola, di indossare la abaya: una specie di tunica che va per la maggiore in area musulmana.
Nel mondo civile non è consentito andare in giro vestiti come Belfagor (non a caso: il fantasma del Louvre), nel senso che non è un diritto celare la propria identità. Se un pubblico ufficiale ti chiede di identificarti non ci sono eccezioni di costume (perché non è una questione di fede): mi fai vedere la faccia e un documento.
I francesi, però, provarono ad affrontare la cosa sotto un profilo diverso – e sbagliato – proibendo l’esibizione di simboli religiosi. Soltanto che, in questo modo, per stabilire che non si può andare in giro mascherati si è finito con il sostenere che un ebreo non può indossare la kippah o non si può portare al collo una catenina con il crocefisso. Ma la laicità dello Stato non è la cancellazione della riconoscibilità di fedi e di diversità, bensì l’affermazione della loro convivenza, subordinata al rispetto della legge.
Per gli abiti si deve intervenire a evitare l’oscenità o la non riconoscibilità, per il resto ciascuno si mette addosso o si toglie di dosso quel che gli pare. Altrimenti proibire favorisce il far divenire l’abito una rivendicazione di identità, una specie di uniforme, di divisa. E non porta bene avere gente che esce da casa in divisa.
di Gaia Cenol
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