Gaza e il placebo Witkoff
L’ultima presunta proposta dell’inviato Usa Steve Witkoff, immobiliarista scopertosi diplomatico, per ottenere una tregua in cambio di ostaggi pare sia stata rifiutata da Hamas

Gaza e il placebo Witkoff
L’ultima presunta proposta dell’inviato Usa Steve Witkoff, immobiliarista scopertosi diplomatico, per ottenere una tregua in cambio di ostaggi pare sia stata rifiutata da Hamas
Gaza e il placebo Witkoff
L’ultima presunta proposta dell’inviato Usa Steve Witkoff, immobiliarista scopertosi diplomatico, per ottenere una tregua in cambio di ostaggi pare sia stata rifiutata da Hamas
Il carisma del conflitto israelo-palestinese sembra irresistibile, tanto da accecare la maggior parte dei media che se ne occupano. La cosiddetta infosfera è piena di interpretazioni contrastanti della guerra attuale. Su cui si staglia anche quella tout court degli sforzi bellici israeliani come atti genocidari. Tuttavia l’ultima presunta proposta dell’inviato Usa Steve Witkoff per ottenere una tregua in cambio di ostaggi pare sia stata rifiutata da Hamas. Che avrebbe ritenuto non soddisfacenti le condizioni (accettate invece dagli israeliani). Una posizione strampalata a fronte della totale sconfitta della dittatura paramilitare nella Striscia di Gaza. Che si è vista ripetutamente decapitata e decimata dai bombardamenti dell’aviazione di Gerusalemme.
L’avanzata delle truppe di Tsáhal (l’esercito israeliano) nelle città gazawi dunque continuerà. Perché Hamas non vuole rilasciare gli ultimi ostaggi ancora in vita (ma nemmeno i corpi di quelli morti). Neanche in cambio di una tregua e del rilascio di migliaia di detenuti palestinesi dalle carceri israeliane. Ribadendo che l’obiettivo del movimento è quello di concludere la guerra mantenendo il controllo dell’exclave. Una pretesa impossibile, come ammesso persino dalla stessa Autorità nazionale palestinese. La scommessa del politburo di Hamas è chiaramente quella di resistere finché la pressione internazionale non costringa Israele a cedere.
La dottrina dei guerriglieri palestinesi prevede il confondersi completamente con la popolazione civile. Scambiando uniformi per magliette e rifugiandosi sottoterra (o ai primi piani) degli edifici residenziali e di uso pubblico. Dopo l’eccidio del 7 ottobre 2023 Israele ha accettato qualsiasi sacrificio collaterale pur di liberarsi di Hamas. E il prodotto di questa catena di azione/reazione è il livellamento di più della metà degli edifici della Striscia. Le vittime totali – nell’ordine delle decine di migliaia – sono un conteggio che sta convincendo l’Europa a rivedere il suo appoggio a Tel Aviv. Ma si tratta di armi economiche spuntate. È la mancanza di una salda guida statunitense in questa fase del conflitto che impedisce un vero controllo della macchina da guerra israeliana. Impiegata quasi al massimo della sua potenza grazie anche alla collaborazione tecnica di Washington.
Witkoff, imprenditore improvvisatosi diplomatico, contratta dunque sulle sabbie mobili dell’inconsistenza della politica estera di Donald Trump e poco di costruttivo può nascere da tali presupposti. Il governo di Benjamin Netanyahu d’altro canto sembra invece godere di questa confusione Trump-generated. Annunciando scatti in avanti come la costruzione di ventidue nuovi insediamenti in Cisgiordania. Si tratta di una reazione secca di Netanyahu anche alle minacce europee di riconoscere unilateralmente lo Stato palestinese. Che improvvisamente si ritrova ancora più piccolo in ben ventidue punti. Una logica di potenza, quella israeliana, che comprende anche le continue minacce di bombardare autonomamente i siti nucleari iraniani.
Certo si può pensare che queste ultime facciano parte della tattica negoziale statunitense. Ma le continue indiscrezioni riguardo la brevità della finestra dei preparativi necessari all’attacco (meno di sette ore), che impedirebbe agli Stati Uniti di dissuadere Gerusalemme, danno più credito all’ipotesi di uno scollamento tra le priorità delle due Nazioni. Da una parte vi è l’affarismo trumpiano che vorrebbe concludere tutto con una stretta di mano e un passaggio di soldi. Dall’altra vi è uno Stato in procinto di ghermire una soluzione definitiva per il problema dei suoi confini. Il termine genocidio è esagerato e usato in malafede, ma i riassetti di frontiera quasi sempre comportano anche riassetti etnici. Ed è questa prospettiva quella che Witkoff dovrebbe scongiurare, al di là di soddisfare i bisogni dell’ego di Trump.
Di Camillo Bosco
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