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Giudea

L’antisemitismo, anche nel suo travestimento di antisionismo, ma anche le scelte oggi di Israele: impossibile provare a capirle se non guardando alla storia

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L’antisemitismo, anche nel suo travestimento di antisionismo, ma anche le scelte oggi di Israele: impossibile provare a capirle se non guardando alla storia

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L’antisemitismo, anche nel suo travestimento di antisionismo, ma anche le scelte oggi di Israele: impossibile provare a capirle se non guardando alla storia

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L’antisemitismo, anche nel suo travestimento di antisionismo, ma anche le scelte oggi di Israele: impossibile provare a capirle se non guardando alla storia

Una grande donna ucraina, giunta negli Stati Uniti per fuggire alle persecuzioni anti ebraiche, poi partita per la Giudea e divenuta capo del governo israeliano, Golda Meir, disse che gli ebrei preferivano essere temuti piuttosto che compatiti. Perché di compatimento non si vive e spesso si muore. Quella radice ebraica, che non è occidentale ma senza la quale non esisterebbe l’Occidente, s’è provato in tutti i modi e in tanti secoli a estirparla, cancellarla, negarla con un furore che è negare sé stessi.

L’antisemitismo, anche nel suo travestimento di antisionismo, è il disperato e irrazionale bisogno di strappare una parte di sé e da sé un debito che accomuna la cristianità all’islamismo. Della stessa Giudea, con la sua più importante città, Gerusalemme, s’è quasi cancellata la storia che precede Gesù di un migliaio di anni, s’è posposto il figlio di Giacobbe al successivo Giuda Iscariota – il traditore di cui l’ebreo Amos Oz scrisse essere forse il solo che aveva veramente creduto a Gesù – talché il termine “giudeo” potesse essere utilizzato come insulto. Meglio essere temuti che compatiti. Ma essere temuti non può bastare.

Israele vive anche perché riconosciuto come una nostra frontiera, delle democrazie. Non fu (solo) il senso di colpa, per la Shoah, a produrre la rinascita dello Stato di Israele. Non furono i colpevoli, tedeschi e italiani in testa, a volerne il ritorno in Giudea. Fu il riconoscimento di un debito morale e culturale e della legittimità a occupare la terra dei padri. Questo è ancora valido e di questo Israele ha ancora bisogno.

Ora tocca a noi provare a capire cosa si è prodotto nella testa non degli ebrei della diaspora, impressionati dal riemergere del mai sparito antisemitismo, ma in quella di chi è nato israeliano. Il 7 ottobre 2023 non è un atto di guerra come tanti altri, di cui la storia d’Israele è piena: è il segno che la convivenza è impossibile. Che ci sarà sempre chi userà i palestinesi non per dare loro una casa e uno Stato, ma per distruggere casa e Stato altrui. Ora è l’Iran.

La missione Unifil si interpone fra una propaggine iraniana e sciita – Hezbollah, la cui missione è distruggere Israele – e Israele. Ha funzionato, è stata sufficiente? No. La missione Onu non assicura neanche il rispetto delle direttive Onu. Ma non si tratta solo di quello e non sarebbe bastevole per far sì che Israele spari contro i caschi blu. Quella missione è un pezzo di un mondo esploso il 7 ottobre, un mondo in cui non si cercava più la pace nella convivenza ma l’equilibrio nella contrapposizione fra estremismi che si negano e reggono a vicenda. L’opposto di quello che aveva sognato Oz, cui noi restiamo legati ma che non lega più Israele.

Vero che quella missione era inefficace e vero che agenzie Onu, a Gaza, celavano terroristi di Hamas. Ma era anche il tempo in cui il governo di Israele favoriva la sopravvivenza di quegli estremismi, li aiutava nel mentre li conteneva. Tutto questo è crollato il 7 ottobre. Per Israele quello è il giorno in cui nulla è più possibile se non la distruzione, perché l’Iran ha scatenato i suoi mercenari e ha violentato la sicurezza di Israele. Non erano più temuti e non volevano tornare compatiti.

Noi dobbiamo provare a capire questo. Ma fin dove può proseguire la reazione? Israele si appresta a colpire l’Iran, ma pensa anche di occuparlo? Nel mentre colpisce ha alle spalle un consenziente mondo arabo, che non ne può più del regime iraniano. Ma pensa di reggersi su quella garanzia? Cosa c’è nel dopo? E qui l’impressione politica è che il dopo non sia un elemento che riguardi l’attuale governo di Israele. Ma Israele sì. Questo il dramma, nel mentre Putin festeggia, gli Usa hanno un presidente lucido ma in uscita e un futuro forse non altrettanto sfavillante, mentre l’Ue non c’è.

Anche ieri Unifil è stata colpita. È una scelta che dice: fuori dai piedi, ce la vediamo noi. È una scelta frutto di errori israeliani, inerzie occidentali e aggressività iraniana. È una scelta, ma è sbagliata.

di Davide Giacalone

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