I leader che servono
La scelta di Joe Biden, ieri in Israele, è quella dei leader che servono alla storia. Basta voltarsi indietro per capirne la profonda importanza
| Esteri
I leader che servono
La scelta di Joe Biden, ieri in Israele, è quella dei leader che servono alla storia. Basta voltarsi indietro per capirne la profonda importanza
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La scelta di Joe Biden, ieri in Israele, è quella dei leader che servono alla storia. Basta voltarsi indietro per capirne la profonda importanza
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La scelta di Joe Biden, ieri in Israele, è quella dei leader che servono alla storia. Basta voltarsi indietro per capirne la profonda importanza
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden è arrivato in Israele per una missione ai limiti dell’impossibile: riaffermare con il massimo del rigore l’appoggio a Israele nelle stesse ore in cui i Paesi arabi che circondano lo Stato ebraico hanno visto esplodere la furia delle folle per la tragedia che ha causato centinaia di vittime nell’ospedale di Gaza City. Un dramma che, oltre alla sacrosanta esigenza di accertarne responsabilità e cause, ha comunque azzoppato il viaggio del capo della Casa Bianca e portato l’intera area pericolosamente vicina a un punto di non ritorno. Una realtà di stupefacente delicatezza che richiederebbe una leadership adeguata alla sfida.
Perché i leader fanno la differenza, nei momenti di crisi acuta ma per certi aspetti ancor più nelle lunghe fasi che portano al redde rationem. Per un Paese come Israele, la cui intera esistenza è costellata da un’infinita serie di tensioni e conflitti, poter contare su una guida salda e lungimirante risulta vitale.
La forzatura di Ben Gurion, la dichiarazione di indipendenza del 14 maggio 1948, non fu un azzardo disperato ma una lucida scelta per costruire, pur nei modi più drammatici e mettendo in conto la prima guerra araba contro il neonato Stato ebraico, una coscienza di nazione. È nel 1967, con la Guerra dei Sei giorni, che la leadership militare e civile di Israele raggiunge il suo apice, riuscendo ad anticipare le mosse della coalizione araba. Furono raggiunti obiettivi strategico-militari incredibili e destinati a segnare la storia della regione nei cinquant’anni successivi. Il generale Moshe Dayan, l’uomo con la benda sull’occhio, incarnò lo spirito di un intero Paese, abituato al travaso dall’esperienza in armi a quella civile. Nel 1973, dopo la guerra del Kippur, l’eroe di Gerusalemme – quel Moshe Dayan intoccabile sino a poco prima – sarà costretto a cedere il passo insieme al capo del governo laburista Golda Meier. Israele aveva vinto ma i cittadini non avevano tollerato l’iniziale impreparazione e le troppe vittime dei primi giorni di guerra.
In quegli anni si sviluppò la carriera politica di un altro personaggio gigantesco, Shimon Peres. Per molti, oggi, ‘soltanto’ il premio Nobel per la pace, l’uomo che tentò in tutti modi con l’amico-avversario Yithak Rabin di raggiungere un accordo stabile e duraturo con i palestinesi di Yasser Arafat. È lo stesso Peres che per lunghi anni fu geniale nel riuscire ad armare di tutto punto Israele, ricorrendo ai mezzi più fantasiosi e talvolta spericolati. Lui e Rabin seppero essere uomini d’armi ma strateghi e di visione, portando il Paese più vicino alla pace che mai.
Che dire poi di Ariel “Arik“ Sharon, generale duro e decisionista, l’uomo inseguito per tutta una vita dall’ombra tragica dei massacri dei campi di Sabra e Chatila in Libano. A uccidere furono armi cristiane, ma gli uomini di Sharon non intervennero. In età avanzata seppe farsi politico di coraggio e lungimiranza. Colui che sgombrò unilateralmente la Striscia di Gaza e la affidò ai palestinesi. “L’uomo forte” che si dimostra tale anche mandando l’esercito e i bulldozer a portar via i coloni israeliani da Gaza. La sorpresa più clamorosa della storia politica di Israele, non a caso raggiunto nell’ultimo tratto della sua esistenza proprio da Shimon Peres nel partito da lui fondato.
Dove sono oggi personaggi di quel calibro? Dove sono i leader capaci di vedere sé stessi e lo Stato di Israele in una dimensione diversa da un tragico status quo? Ci sarà tempo per stabilire le responsabilità – ove ci siano state – di Benjamin Netanyahu nei tragici fatti del 7 ottobre, ma possiamo anticipare il giudizio negativo su quella sua parte di politica che ha portato a provare di ignorare il problema palestinese, relegandolo a gestione di un conflitto a bassa intensità. Fino a coltivare quella che su queste pagine Yigal Carmon ha definito una «terribile illusione».
di Fulvio Giuliani
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