Il mondo di Trump
Le decisioni di Trump in politica estera saranno determinanti, ora il Vecchio Continente è al bivio tra la subordinazione o una scelta retoricamente autonoma
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Le decisioni di Trump in politica estera saranno determinanti, ora il Vecchio Continente è al bivio tra la subordinazione o una scelta retoricamente autonoma
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Le decisioni di Trump in politica estera saranno determinanti, ora il Vecchio Continente è al bivio tra la subordinazione o una scelta retoricamente autonoma
Le decisioni di Trump in politica estera saranno determinanti, ora il Vecchio Continente è al bivio tra la subordinazione o una scelta retoricamente autonoma
Anthony Blinken, segretario di Stato americano, ha suggerito agli europei di non dar peso alle recenti dichiarazioni di Trump riguardo alla Groenlandia, visto che a parer suo le sue parole non saranno seguite da atti. Credo piuttosto che la prudenza imponga di prendere molto sul serio il prossimo cambiamento di politica estera americana.
La Groenlandia è colonia scandinava dal IX secolo, inizialmente norvegese e poi danese. Gli Stati Uniti sono nati un quarto di millennio fa dalla ribellione di tredici colonie britanniche e sono divenuti una potenza continentale in seguito, occupando (con coloni europei) vasti territori scarsamente popolati da indigeni, conquistando territori messicani (come il Texas e la California) o spagnoli (come la Florida e Portorico) e acquistando territori precedentemente colonizzati da potenze europee (come la Louisiana francese e l’Alaska russa). Panama, peraltro, era un negletto territorio colombiano, divenuto indipendente per iniziativa americana in vista della realizzazione di un canale che l’ha resa strategicamente ed economicamente molto rilevante.
Se la Groenlandia dovesse divenire indipendente per scelta dei suoi cinquantamila abitanti, diverrebbe palese l’interesse strategico americano a conservare influenza dominante su un territorio vastissimo che il mutamento climatico in corso rende in prospettiva importante. L’idea di risolvere queste questioni con l’uso della forza – in Occidente, nel XXI secolo e fra alleati – fa a pugni con l’ordine internazionale che il medesimo Occidente ha creato nel secolo scorso dopo due conflitti mondiali drammatici. È dunque non soltanto auspicabile ma anche probabile che le rivendicazioni avanzate retoricamente da Trump prima di tornare ad assumere le funzioni presidenziali saranno risolte con accordi diplomatici ragionevoli.
Ma il problema è che l’elefante è già rumorosamente entrato nella cristalleria dell’ordinamento internazionale basato su regole condivise ed economia globalizzata, con gli esiti facilmente intuibili. Se gli Usa trumpizzati affermano ora il loro diritto di annettere territori alieni ritenuti di interesse strategico, senza escludere a priori l’uso della forza, l’unico artificio retorico per negare alla Russia di Putin il diritto di ‘riprendersi’ l’Ucraina e i Paesi baltici in quanto ‘strategici’ consiste nell’affermare, in base a meri rapporti di forza militari, «Quod licet Jovi non licet bovi» e ancor più difficile risulta spiegare a Xi che la Cina non ha diritto di annettere Taiwan, un’isola sulla quale formalmente ha già sovranità.
Per gli europei ignorare la nuova realtà americana è altrettanto inutile del farne oggetto di scandalo e proteste verbali. Se è da tempo evidente a tutti che l’unico linguaggio che Putin ascolta è quello della forza, è ora urgente comprendere che senza unità interna e volontà di agire con determinazione il Vecchio Continente avrà soltanto la scelta fra una subordinazione costosa agli interessi americani o l’irrilevanza insicura di una scelta retoricamente autonoma, non accompagnata dalla volontà di difendersi e dalla capacità di innovare.
Di Ottavio Lavaggi
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