Questa volta, per provare a capire come si possa tornare sempre alla casella del ‘Via’ nel tragico gioco dell’oca del conflitto israelo-palestinese, proviamo a partire dalla televisione. Da due prodotti disponibili anche in Italia: uno splendido docufilm sulla vita e sulla carriera politica di Shimon Peres (“Il talento di sognare”) e la serie “Fauda”.
Nel primo, prezioso per chi voglia documentarsi su una parabola che è parte integrante del conflitto arabo-israeliano e della breve stagione in cui la pace sembrò a portata di mano, emerge la potenza della figura, dell’uomo, delle sue idee politiche. Più di ogni altra cosa, l’insopprimibile e meravigliosa urgenza di non rassegnarsi alla fine dei sogni.
Dove sono, oggi, leader della portata di Shimon Peres? Mancano drammaticamente – restiamo anche nel solo Medioriente – personalità come la sua, capaci di imparare dai propri errori e di saper guardare in faccia la Storia per quel che è: una continua evoluzione. Vale da una parte e dall’altra, con i palestinesi ridotti a pedine di un gioco condotto dai peggiori fra i peggiori: i terroristi di Hamas, della Jihad o di chi si è avvicinato all’Iran (ci torneremo) attraverso il fanatismo di Hezbollah e con la componente di Fatah in affanno da anni. L’unica o quasi che, pur confusamente e fra mille reticenze, seppe intravedere la necessità di trattare con Israele riconoscendo il suo diritto all’esistenza. Concetto tornato oggi tragicamente minoritario e da tenere sempre ben presente, per comprendere le ricorrenti ondate terroristiche.
Anche da noi, i tanti che Israele non l’hanno mai digerito e sono prontissimi a ricordare le sofferenze dei territori occupati o la tragedia di Gaza (dove Hamas sfrutta nel modo più bieco donne, bambini e uomini per i suoi interessi) evitano scrupolosamente di ricordare che l’ala estremista palestinese è ferma all’idea della cancellazione dello Stato di Israele. In perfetta sintonia con il regime iraniano, colpito domenica da un’azione di sabotaggio attribuita da fonti Usa proprio a Israele. Un’altra parte della stessa, grande storia; un fronte sempre aperto della lotta per la sopravvivenza dello Stato ebraico.
Chi comanda a Gerusalemme, intanto? Bibi Netanyahu, nella sua ennesima reincarnazione politica. Personaggio ampiamente screditato, eppure capace di trovare sempre nuovi alleati con cui tornare al potere. Solo che il suo gioco ha una caratteristica ricorrente: per funzionare, ha ‘bisogno’ della minaccia del terrorismo. Si nutre di questa – spostandosi sempre più a destra – senza la raffinatezza e il coraggio di Ariel Sharon, che seppe essere al contempo il provocatore della spianata del Tempio, il teorico del muro di divisione fra Israele e i territori arabi, ma anche del ritiro unilaterale e forzato dei coloni da aree non più controllabili e da restituire alla giurisdizione palestinese. Il Netanyahu di oggi trova sempre più la propria ragion d’essere nella paura di un terrorismo che ormai non si sa come contrastare politicamente.
Ed eccoci al secondo spunto televisivo: la serie Netflix “Fauda”, incentrata sulle vicende di un’unità antiterrorismo israeliana composta da infiltrati nelle file palestinesi. Per metà recitata in arabo, israeliana e israelocentrica, “Fauda” ha il grande merito di toccare le mille contraddizioni di una lotta spietata da ambo le parti. Conflitti di coscienza compresi e non solo israeliani. I palestinesi non sono dipinti come demoni indistinti, ma come donne e uomini spesso vittime di colossali raggiri e narrazioni ben più vecchie della loro stessa vita. È una serie in cui alla fine perdono tutti e in cui si respira ciò che non andrebbe mai dimenticato quando si parla o si scrive di Israele: quella disperata e commovente voglia di assaporare la vita come se ogni giorno fosse l’ultimo.
Comprensibile solo se nasci, vivi e muori sempre in guerra.
di Fulvio Giuliani
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