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Il sermone che non s’aspettava

Che ironia (amara) deve essere stata per Donald Trump aver trovato in chiesa, in un sermone di fuoco, l’unica nota stonata nei giorni trionfali dell’insediamento

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Il sermone che non s’aspettava

Che ironia (amara) deve essere stata per Donald Trump aver trovato in chiesa, in un sermone di fuoco, l’unica nota stonata nei giorni trionfali dell’insediamento

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Il sermone che non s’aspettava

Che ironia (amara) deve essere stata per Donald Trump aver trovato in chiesa, in un sermone di fuoco, l’unica nota stonata nei giorni trionfali dell’insediamento

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Che ironia (amara) deve essere stata per Donald Trump aver trovato in chiesa, in un sermone di fuoco, l’unica nota stonata nei giorni trionfali dell’insediamento

Che ironia (amara) deve essere stata per Donald Trump aver trovato proprio in chiesa l’unica nota stonata. L’unica voce di dissenso chiara e inequivocabile nei giorni trionfali dell’insediamento.

Lui, che nel discorso nella rotonda di Capitol Hill subito dopo aver giurato come 47º presidente degli Stati Uniti d’America, aveva esclamato di essere stato salvato da Dio per compiere la missione di far tornare grande l’America, riportandola all’“età dell’oro”. Lui “Unto del Signore”, come avrebbe detto con ben altra autoironia qualcuno da queste parti, si è sentito rintuzzare senza alcun riguardo dal pulpito della cattedrale episcopale di Washington.

A parlare una donna dall’aria mite e ordinaria, del tutto ignota alle cronache sino a una manciata di ore fa. Mariann Edgar Budde, vescova della diocesi episcopale di Washington. Con toni accorati ma allo stesso tempo fermi ha invocato “pietà e misericordia” nei confronti di immigrati, gay e transgender. Lo ha fatto guardando dritto negli occhi Trump. Hanno fatto il giro del mondo le espressioni di disgustata sorpresa del neopresidente all’udire – incredulo – quelle parole.

Non la conosciamo e non possiamo sbilanciarci, tanto meno escludere nulla ma fanno fede i fatti, che in questo caso sono le parole. Nella cattedrale episcopale di Washington sono risuonati termini che in quanto tali sono vissuti oggi da tanti come superati, se non inaccettabili. Sintomo di debolezza, decadenza, sospettiamo anche scarsa mascolinità: pietà, misericordia e comprensione. Concetti del tutto antitetici all’intera narrazione che ha accompagnato il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Nel giro di poche settimane termini e concetti propri della mitologia americana – “Land of Hope and Dreams” – sono letteralmente spariti. Estranei in terra d’America.

Abbiamo ascoltato parole di colpo desuete, ridicolizzate, sospinte nel recinto del passato polveroso da un’accozzaglia di invasati sostenitori di un uomo. Che – ci sia consentito senza suscitare ire – ha una considerazione di se stesso tale da non avere alcuna remora di autoincastonarsi in una visione messianica del proprio destino. Destino, non ruolo.

Non sappiamo se quelle parole tutto sommato semplici avranno la forza di risvegliare un dibattito nel campo democratico che vada oltre la pura demonizzazione di The Donald, favorendo l’emersione dell’unico antidoto alle derive (oltre la forza della legge) che esista in democrazia: una proposta politica alternativa, forte, credibile e vincente. Il sermone era tutto sommato facile, essenzialmente una questione di coraggio e consapevolezza del proprio ruolo. Dare all’America una versione diversa di sé rispetto al volto truce di Trump è molto ma molto più difficile.

Di Fulvio Giuliani

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