Ilaria Salis, anatomia di un orrore
Ilaria Salis, anatomia di un orrore
Ilaria Salis, anatomia di un orrore
Ilaria Salis, anatomia di un orrore. Che altro si può dire a commento di immagini che nella realtà giudiziaria italiana sarebbero riservate a processi per gravi omicidi, ma riguardano di fatto reati che nel nostro Paese si potrebbero patteggiare a pene inferiori all’anno (o forse non sarebbero nemmeno perseguibili, non avendo le vittime denunciato l’aggressione)? Agenti incappucciati, piglio severo, imputata legata mani e piedi, tenuta alla catena: tutto ciò evidentemente non ha nulla a che vedere con le esigenze processuali e costituisce una dimostrazione di debolezza e fragilità del sistema che le adotta. Nelle nostre aule da decenni vi sono ‘gabbie’ che costituiscono retaggio di passate, aprioristiche esigenze: forza, severità e intransigenza, attributi che non necessitano d’essere rappresentati, in quanto incompatibili con la risposta che deve essere di giustizia.
Ilaria Salis è stata esibita in tribunale in condizioni che – a prescindere dalla sua eventuale responsabilità – sono offensive del buon senso, della giustizia e dei fondamentali diritti cui si deve informare un Paese civile. Questa donna si trova ristretta in una prigione a cui i familiari hanno potuto accedere soltanto dopo il clamore mediatico. Tutto ciò ha acceso i riflettori sulle criticità del sistema carcerario ungherese: durezza, difetto di igiene, offesa della dignità. Le autorità di Budapest respingono i rilievi e, per dimostrare quanto siano infondati, invitano persino i giornalisti italiani con tanto di telecamere.
Ciò detto, non si può non considerare che la Corte europea per i diritti umani ha definito le condizioni di detenzione delle nostre carceri – come ricorda Mauro Palma in un pregevole articolo su “Diritto Penale e Processo” di questo mese – «inumane e degradanti innanzitutto per il sovraffollamento delle strutture ma anche per l’inutilità di una vita organizzata attorno alla permanenza di quella che, forse con qualche ironia, è chiamata camera di pernottamento». Per descrivere il nostro sistema carcerario è sufficiente ricordare che nel 2023 il numero dei detenuti suicidatisi è di 67. Fra loro anche Fakhri Marouane, che si è dato fuoco nel carcere di Pescara. Secondo l’associazione Antigone, «una persona profonda, interessata alla cultura e all’arte. Nessuno si immaginava che si sarebbe tolto la vita in quel modo così doloroso».
Nelle nostre carceri ci sono oltre 60mila detenuti. L’impressionante numero di suicidi è emblematico di quali siano le condizioni di detenzione in Italia. Criticare il sistema ungherese è necessario, non dimenticando le disastrose inadeguatezze del nostro.
di Cesare CicorellaLa Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
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