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Immagini del dolore in bianco e nero

Ci sono immagini alla cui significatività è difficile sottrarsi: dolorose, prive di colore. Sono quelle che purtroppo vediamo ancora oggi al confine fra Bielorussia e Polonia. Fotografie dei tempi in cui viviamo, immersi in una civiltà che falsamente riteniamo raggiunta.
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Immagini del dolore in bianco e nero

Ci sono immagini alla cui significatività è difficile sottrarsi: dolorose, prive di colore. Sono quelle che purtroppo vediamo ancora oggi al confine fra Bielorussia e Polonia. Fotografie dei tempi in cui viviamo, immersi in una civiltà che falsamente riteniamo raggiunta.
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Immagini del dolore in bianco e nero

Ci sono immagini alla cui significatività è difficile sottrarsi: dolorose, prive di colore. Sono quelle che purtroppo vediamo ancora oggi al confine fra Bielorussia e Polonia. Fotografie dei tempi in cui viviamo, immersi in una civiltà che falsamente riteniamo raggiunta.
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Ci sono immagini alla cui significatività è difficile sottrarsi: dolorose, prive di colore. Sono quelle che purtroppo vediamo ancora oggi al confine fra Bielorussia e Polonia. Fotografie dei tempi in cui viviamo, immersi in una civiltà che falsamente riteniamo raggiunta.
Ci sono immagini alla cui significatività è difficile sottrarsi; per quanto si possa tentare di spostarle in quel luogo remoto nel quale confiniamo ciò che ci inquieta e turba, riemergono inattese, in tutta la loro spaventosa semplicità. Prive di colore, sono in bianco e nero; racconti che, nella loro essenziale crudezza, non hanno alcuna necessità di suscitare sensazioni di vita. Fotografie dei tempi che viviamo, immersi negli schemi illusori di una civiltà che riteniamo raggiunta, ma continuamente costretti a ricrederci per ciò che la realtà rivela. La prima. Il punto di ripresa è sollevato di pochi metri per ottenere l’effetto di contemplare ogni particolare: da un lato uomini in divisa e filo spinato; a seguire donne, bambini e uomini ammassati con atteggiamenti che rivelano stupore, confusione, paura, sostanzialmente la mancanza di futuro sino alla disperazione; davanti a loro ancora filo spinato e oltre altri militari in assetto di battaglia (quale battaglia? Quella contro un esercito di profughi?). Non si constatano contatti violenti, la violenza è nelle pose dei protagonisti: se ne intuisce la dura essenzialità. Un timore antico nei gesti di chi subisce. Gli uni spingono i rassegnati oltre il confine, gli altri impediscono il superamento del filo spinato: in mezzo, dunque, il panico. È una delle porte dell’Europa, che nulla ha a che vedere con le nostre convinzioni di civiltà. La seconda. Un militare, pare assurdamente alto, intabarrato in una divisa esageratamente protettiva. Il gesto: arretra appena, il braccio è teso nel reggere un guinzaglio. Conduce un cane di grossa taglia. A terra, un uomo: appare dimesso, anche nel tentativo di rotolare su sé stesso per sottrarsi al morso dell’animale, che ha i denti scoperti e il muso contratto. Aggressività ottusa. È sempre una porta dell’Europa. Che preferiamo negare. La terza non si vede. Nessuno l’ha ripresa e ne immaginiamo le ragioni sicché, come spesso avviene, è la nostra mente che la disegna: un piccolo gruppo di emarginati ha superato il filo; una famiglia, che immaginiamo in nero. Con loro anche un bambino di un anno o poco più. Era fatta: l’Europa aveva aperto le sue braccia (per caso). Purtroppo il freddo ha ucciso il bambino; che non si vede, ma che immaginiamo in bianco. Che possiamo fare? Stupiti ci rassegneremo all’indifferenza? È già accaduto: eppure pensavamo d’essere civili. Avvenne, avviene, avverrà.   di Cesare Cicorella

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