Iran, la bestemmia dell’impiccagione
Iran, la bestemmia dell’impiccagione
Iran, la bestemmia dell’impiccagione
Washington – I tribunali iraniani continuano a emettere condanne a morte contro i manifestanti in Iran. Fino a oggi non è dato sapere il numero esatto delle persone nel braccio della morte, ma è certo che fra di loro ci sono anche due fratelli minorenni – Ali Rakhshani di 17 anni e Mohammad Rakhshani di 16 anni – originari della provincia del Balochistan. Il quotidiano iraniano “Javan”, legato alle Guardie rivoluzionarie, ha scritto che piú di sessanta manifestanti saranno prossimamente «giustiziati» e che Mohsen Shekari, il ventitrenne impiccato lo scorso 8 dicembre, «non è il primo a essere condannato all’impiccagione durante i recenti disordini né sarà l’ultimo. La legge obbliga la magistratura a giustiziare queste persone, che sono autori di omicidi».
Come Shekari, altri detenuti nel braccio della morte sono infatti accusati di aver partecipato all’uccisione di agenti Basij. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, gli imputati non hanno però accesso alla rappresentanza legale e confessano sotto coercizione. È il caso del dottor Hamid Ghare-Hassanlou, un radiologo di 53 anni arrestato assieme a sua moglie Farzaneh e condannato all’impiccagione lo scorso 7 dicembre. Il medico iraniano è stato sottoposto a torture fisiche che gli hanno perforato un polmone e rotto sei costole. Si conosce anche il caso di Mohammad Mehdi Karami, condannato all’impiccagione a soli 22 anni: in una breve comunicazione con i suoi genitori ha detto di essere stato picchiato fino a perdere i sensi, di essere continuamente minacciato di stupro e di essere toccato nei genitali dalle guardie di sicurezza.
Il portavoce della magistratura iraniana, Masoud Setayeshi, ha recentemnte giustificato le condanne a morte nel corso di un’intervista televisiva: «Dobbiamo tutti rispettare la legge, che è uguale per tutti. Dobbiamo impegnarci a farla rispettare e ad aderire alla shari’a [la legge islamica, ndt.]». Parlando poi dell’impiccagione di Mohsen Shakeri, ha aggiunto: «Il verdetto è stato confermato, annunciato ed eseguito. Qualsiasi persona – uomo o donna, musulmano o non musulmano – che progetta di danneggiare la vita, la proprietà o la dignità pubblica, oppure di diffondere paura e insicurezza, commette Moharebeh [atto di ribellione contro Dio punibile con la morte, ndt.]».
In un appello alla comunità internazionale la madre di Saman Yasin Sayidi, un rapper di origine curda di 27 anni in attesa di essere impiccato, descrive invece con parole semplici l’ingiustizia della Repubblica Islamica: «Mio figlio è stato condannato a morte e gli è stato negato anche un avvocato. In quale parte del mondo si toglie la vita a una persona cara per aver soltanto bruciato un bidone della spazzatura? Sono una madre con il cuore a pezzi. Aiutatemi».
Intanto, dall’inizio delle proteste sono state uccise più di 500 persone (di queste 60 erano minorenni) durante le manifestazioni di piazza e sono stati arrestati più di 18mila cittadini indifesi (di cui, in molti casi, le famiglie non sanno dove siano detenuti e se siano ancora vivi). Sono inoltre migliaia i feriti gravi, che spesso non hanno accesso alle cure mediche per paura di essere arrestati.
Middle East Media Research Institute
Traduzione di Anna Mahjar-Barducci
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