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Israele

Israeliani oggi

Il nostro quotidiano è stato ospite della cerimonia ufficiale del 76º anniversario della Dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele

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Il nostro quotidiano è stato ospite della cerimonia ufficiale del 76º anniversario della Dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele

Il nostro quotidiano è stato ospite della cerimonia ufficiale del 76º anniversario della Dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele e del 75º delle relazioni diplomatiche fra Italia e Israele. Un’occasione solitamente ‘di routine’, che alla luce dei tragici eventi seguiti al 7 ottobre non poteva che assumere contorni molto diversi rispetto agli ultimi anni. La guerra pesa, la tragedia incombe, il dolore si sente. Aleggia nell’aria. Il governo, la politica, i rappresentanti delle istituzioni e delle Forze armate non sono mancati – non avrebbero potuto – ma in numero e a un livello di rappresentanza diversi. Ogni parola conta, ogni fotografia impegna: non si tratta di voler prendere le distanze, ma ciascun gesto viene pesato. A Roma come in tutte le capitali europee.

Per quanto ci riguarda, gradiremmo un appoggio se possibile ancor più fermo, pur nel sacrosanto diritto di critica a una politica che tante volte abbiamo definito priva di una strategia per condurre la guerra nella Striscia di Gaza e disegnarne un futuro. Il futuro di 2 milioni di palestinesi lasciati troppo a lungo nelle mani di Hamas, premiando il cinismo e gli interessi degli sponsor dei terroristi ma anche a causa dell’illusione cullata dal governo israeliano di poter ‘comprare’ una qualche forma di convivenza armata, in cambio del fiume di denaro che Hamas ha finito per rivolgergli contro il 7 ottobre.

Torniamo però alla cerimonia che ha segnato anche la fine della missione a Roma dell’ambasciatore Alon Bar, trovatosi a gestire l’incubo degli attentati e il progressivo trasformarsi dell’iniziale solidarietà in distacco, critica e sempre più spesso attacchi indiscriminati allo Stato di Israele. Angoscia il senso di assedio che emerge dai volti, dai gesti e dalle parole degli israeliani. Vivono da sempre nel costante timore della guerra e della distruzione, nascono in un Paese che non ha mai conosciuto in 76 anni il significato più profondo della parola “pace”. Almeno così come lo possiamo intendere noi.

Eppure questa volta è diverso, avvertono una dimensione di rischio prima sconosciuta. Ti si avvicinano, stringono le mani guardandoti fisso negli occhi e dicono più volte: «Grazie di essere qui, è molto importante per noi». Lo ripetono in italiano, inglese ed ebraico e avverti che non è un gesto dovuto, una cortesia per così dire istituzionale o buona educazione. Le immagini delle nostre università, le proteste violente, le richieste di boicottaggio hanno colpito profondamente gli israeliani che vivono da noi e tanti italiani di religione ebraica. Non riescono a capire come si possano dimenticare i 1.200 morti, i loro 180 concittadini ancora nelle mani di Hamas, i feriti. Salutano gli eroi, ma ricordano anche i vertici militari che dimettendosi si sono assunti la responsabilità del clamoroso fallimento di intelligence di ottobre: una delle tante, enormi differenze con chi il proprio popolo lo manda al macello perché ha bisogno esattamente di quello. È, in sostanza, il dato politico dell’impossibile equiparazione fra Hamas e Israele, seguente alla richiesta di arresto – non ancora esaminata – arrivata dal procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aja.

Chiunque abbia visitato Israele sarà stato colpito dal persistente senso di accerchiamento che si respira. Uno status che ha anche aiutato il Paese a gestire la sua storia e a diventare ricco e sviluppato. Un faro della democrazia e dei diritti umani in un’area che conosce solo autocrazie, violenza e dittature, cosa regolarmente dimenticata da taluni curiosi sostenitori della libertà nel nostro Paese. Ci sarà un motivo se Israele ha un tasso di natalità sconosciuto alle Nazioni occidentali, un amore per certi aspetti disperato per la vita e anche il divertimento, cristallizzato in quella città fuori dallo spazio che è Tel Aviv.

L’ondata di odio a casa nostra fa più male, proprio perché inattesa nelle dimensioni e nella virulenza morale nei confronti di tutto ciò che è Israele e sempre più spesso ‘ebreo’.

Agli amici devi sincerità e appoggio: stringendo quelle mani ci siamo sentiti investiti di una piccola missione di verità così come dell’impegno a non venire meno all’obbligo di onestà intellettuale anche nelle critiche a fratelli che non possiamo abbandonare. Perché abbandoneremmo noi stessi.

di Fulvio Giuliani

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