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Israele

Equilibrio e il futuro d’Israele e Palestina

Evitare di abboccare è il primo dovere della politica occidentale, in questa guerra a Israele alcuni punti non sono negoziabili. In cerca di equilibrio
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Equilibrio e il futuro d’Israele e Palestina

Evitare di abboccare è il primo dovere della politica occidentale, in questa guerra a Israele alcuni punti non sono negoziabili. In cerca di equilibrio
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Equilibrio e il futuro d’Israele e Palestina

Evitare di abboccare è il primo dovere della politica occidentale, in questa guerra a Israele alcuni punti non sono negoziabili. In cerca di equilibrio
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Evitare di abboccare è il primo dovere della politica occidentale, in questa guerra a Israele alcuni punti non sono negoziabili. In cerca di equilibrio

Le immagini e la loro strategia d’uso in guerra sono arma nota, moltiplicata nella sua potenza emotiva verso l’opinione pubblica dall’epoca dei social e della loro presenza totalizzante. E Hamas, aggressore di Israele, le immagini le sta usando quotidianamente. Contro Israele. Con metodo e con un obbiettivo: sfaldare il fronte occidentale che sostiene Tel Aviv e il suo diritto di reagire dopo il vile attacco del 7 ottobre scorso.

Evitare di abboccare è il primo dovere della politica occidentale. Perché in questa guerra a Israele alcuni punti non sono negoziabili. Non sono negoziabili l’esistenza dello Stato di Israele e la sua salvaguardia da qualsiasi attacco. Non è negoziabile la realtà, per cui noi oggi sappiamo che Tel Aviv è l’unica democrazia di un’area martoriata da decenni e strategica per la geopolitica globale. Non è negoziabile che, dopo quanto subìto per mano di Hamas, Israele abbia scelto di rispondere e di difendersi. Una risposta che dev’essere misurata sugli obbiettivi da raggiungere e non sulla vendetta. Su questo – e il nostro giornale lo sta scrivendo da tempo – il ruolo del presidente americano Joe Biden è stato sinora determinante ed equilibrato. Quello di sconfiggere definitivamente Hamas è un obbiettivo militare e politico sacrosanto. Un obbiettivo da non confondere con il radere al suolo Gaza o la Palestina.

E qui, dai temi non negoziabili la questione passa appunto all’equilibrio. Che significa anzitutto pensare al dopo. Dopo l’ingresso armato a Gaza e la fine della risposta di Israele al vile attacco subìto, si porrà infatti il tema di cosa resterà e di come convivranno israeliani e palestinesi. Fare in modo che in quell’area non resti soltanto odio è una questione politica e non umanitaria. Una questione che Israele e l’Occidente dovranno affrontare per evitare di tornare a prima del 2005. Non che dopo sia stato bello. Anzi. Ma prima era peggio. Perché ciò accada, perché dopo la risposta di Israele all’attacco di Hamas si riesca a costruire una pace possibile e a evitare un fuoco perenne di missili da Gaza su Israele, occorre prendere atto di un’evidenza: in quelle zone dovranno convivere israeliani e palestinesi.

Un buon viatico a che questo accada sarà la sconfitta di Hamas. Ma per evitare che subito dopo sbuchi fuori un’altra organizzazione terroristica occorre che il mondo si faccia carico del fatto che esiste anche il diritto dei palestinesi ad avere un loro Stato. Non sarà domani, non sarà dopodomani, i tempi saranno probabilmente lunghi ma dovranno esserlo senza una guerra continua fra due popoli. Dopo la reazione di Israele si tratterà infatti di ripartire da un equilibrio. Come? Non certo con la retorica facile che in molti ripetono in queste ore: due popoli e due Stati. Perché questa retorica non risponde alla domanda sostanziale: in che modo?

L’opzione meno peregrina appare quella di avviare una interposizione militare – ovviamente armata (ma ribadire a volte aiuta) – che dovrà essere organizzata e condivisa anzitutto da Israele, poi dai palestinesi (non da Hamas, che speriamo sarà a quel punto sconfitto), dagli Stati arabi, dagli Usa, dall’Unione europea, dalla Cina e (non prendeteci per utopisti) dalla Federazione Russa. L’inizio della visita negli Stati Uniti del ministro degli Esteri cinese Wang Yi – che ieri ha incontrato a Washington il segretario di Stato Usa Antony Blinken e oggi vedrà il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan e pure il presidente Usa Joe Biden – è un segnale diplomatico da non sottovalutare. Primo, perché un capo di Stato e di governo che incontra un ministro è cosa inusuale. Secondo, perché Biden avrebbe chiesto a Wang di parlare (anche) di Iran. Equilibri.

di Massimiliano Lenzi

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