La calma prima della tempesta
La risposta iraniana all’operazione Martello di Mezzanotte si fa attendere
La calma prima della tempesta
La risposta iraniana all’operazione Martello di Mezzanotte si fa attendere
La calma prima della tempesta
La risposta iraniana all’operazione Martello di Mezzanotte si fa attendere
A un giorno di distanza dall’attacco statunitense a sorpresa sulle infrastrutture più difese del programma atomico iraniano, il mondo è ancora in attesa della vendetta di Teheran. Più di sei ore fa un solitario missile balistico è partito dall’Iran verso Israele, ma è stato intercettato dalle difese antiaeree. Un attacco molto flebile, probabilmente stroncato nella quantità dagli attacchi preventivi israeliani (le Forze armate di Gerusalemme continuano a diffondere i video dei lanciatori distrutti durante il dispiegamento, l’ultimo montante un missile balistico Ghadr/Emad).
Quello che non sta accadendo sul lato militare potrebbe però concretizzarsi sul versante terroristico, un’altra delle specializzazioni del regime degli ayatollah. Pare che nelle ore precedenti il bombardamento sia arrivata una minaccia diretta da parte dei pasdaran: se gli Usa interverranno, attiveremo le cellule dormienti per colpire il Grande Satana dall’interno. Negli Stati Uniti vivono d’altronde quasi mezzo milione di iraniani, quasi la metà in California, e – nonostante molti siano esuli del regime – per la legge dei grandi numeri è assai probabile che fra di loro si celi qualche spia.
Fortunatamente questo scenario non si è ancora concretizzato, anche perché potrebbe facilmente dar vita a una iranofobia nella magmatica America trumpiana. È però passato davvero troppo poco tempo per tirare un respiro di sollievo, mentre le reazioni dei pasdaran potrebbero essere molto diverse. L’Iran potrebbe decidere di impiegare il suo residuo arsenale missilistico per bersagliare le principali basi statunitensi dell’area come la Prince Sultan Air Base ad al-Kharj, a circa 80 km a sud di Riyadh.
Una scelta strategicamente molto bizzarra, visto che i missili stanno facendo già ben poco a Israele a livello militare. Dilapidare ulteriormente il ‘tesoretto’ missilistico iraniano in attacchi di dubbia efficacia su basi militari installate in altri Paesi della regione allargherebbe la schiera dei nemici iraniani.
Pur aderendo al demenziale motto “molti nemici, molto onore”, anche a Teheran potrebbe sorgere il dubbio che sia meglio non moltiplicare gli avversari mentre si sta evidentemente perdendo. Questo è anche il motivo per cui l’altra minaccia, cioè la chiusura dello Stretto di Hormuz (già votata a larga maggioranza dal parlamento iraniano, ma senza l’imprimatur della Guida suprema Khamenei) non sarebbe parimenti una grande mossa.
Può il dubbio piacere di far pagare la benzina agli occidentali due euro al litro (negli scenari peggiori), valere la candela della globalizzazione di un conflitto regionale? Da quel braccio di mare passa il 20% del petrolio consumato globalmente, cioè 17 milioni di barili al giorno, così come il 30% del gas naturale liquefatto mondiale. Sul gas, per fortuna siamo in estate (almeno lo è l’emisfero che più ne consuma). Sul petrolio, i nove decimi che passano da Hormuz finiscono in Asia. Per la maggior parte in Cina, alleata silente dell’Iran, che però ha alcune alternative d’approvvigionamento (tra cui aumentare il contrabbando del greggio russo). India, Thailandia, Indonesia e gli altri Paesi si ritroverebbero invece in una crisi energetica e alla spasmodica ricerca di alternative sui mercati internazionali.
Come si scriveva sopra questo farebbe balzare il prezzo al barile, ma danneggerebbe (dopo un lungo giro) principalmente l’Europa che si è sempre posta come mediatore tra i massimalismi iraniani e statunitensi. Washington è invece il più grande produttore di petrolio al mondo e paradossalmente i suoi costosi impianti di estrazione tramite fracking gioverebbero persino di un aumento del prezzo dei barili. Se Teheran volesse continuare su questa linea autolesionista, allora dovremmo vedere veloci barchini armati dei pasdaran e navi dragamine. I primi per partire all’arrembaggio di ogni nave civile considerata nemica transitante nell’area, le seconde per rendere lo Stretto una trappola mortale per chiunque non conosca la mappa del campo minato marittimo.
Due operazioni possibili in astratto, ma decisamente complicate da attuare sotto l’occhio vigile delle portaerei statunitensi “USS Vinson” e “USS Nimitz” (forti di circa 180 velivoli) e dei loro gruppi d’attacco. In questa situazione di minorità, il regime ha comunque conseguito una piccola vittoria, cioè quella di aver trafugato da Fordo circa mezza tonnellata di uranio arricchito al 60% prima che arrivassero le bunker buster statunitensi. È ancora presto, tuttavia, per immaginare scenari di film come “The Peacemaker”: l’uranio dovrebbe essere ancora arricchito in centrifughe per almeno un mese e poi montato in una bomba che gli iraniani non hanno mai testato, nonostante tutto.
Non potrebbe essere usato neanche per un cosiddetta bomba sporca, dato il relativamente basso livello di radioattività. Più probabile che sia stato messo al sicuro per essere usato come arma negoziale nelle eventuali trattative di resa, condotte da Khamenei o da un suo successore.
Di Camillo Bosco
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