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Germania semaforo

La crisi di governo in Germania: il “semaforo” è… guasto

In Germania si esaurisce l’esperimento social-liberale passato alle cronache (ma non alla Storia) come “governo semaforo”

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La crisi di governo in Germania: il “semaforo” è… guasto

In Germania si esaurisce l’esperimento social-liberale passato alle cronache (ma non alla Storia) come “governo semaforo”

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La crisi di governo in Germania: il “semaforo” è… guasto

In Germania si esaurisce l’esperimento social-liberale passato alle cronache (ma non alla Storia) come “governo semaforo”

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In Germania si esaurisce l’esperimento social-liberale passato alle cronache (ma non alla Storia) come “governo semaforo”

Berlino – Con le dimissioni imposte da Olaf Scholz al suo vice e ministro delle Finanze Christian Lindner e il conseguente ritiro della delegazione ministeriale dell’Fdp si esaurisce l’esperimento social-liberale passato alle cronache (ma non alla Storia) come ‘governo semaforo’. Una sorta di progetto lib-lab, aggiornato con robuste dosi di ambientalismo che hanno sostanziato tempi e modi della transizione energetica. Un fallimento le cui responsabilità oggi gli attori ex alleati si rinfacciano l’un l’altro, ma che vanno equamente distribuite fra tutti i protagonisti. E che in qualche modo vengono da lontano.

Le drammatiche crisi internazionali succedutesi dalla metà dello scorso decennio hanno stravolto i pilastri del modello industriale tedesco: dalle guerre commerciali (che hanno innescato il processo di de-globalizzazione) alla pandemia (che ha messo in crisi le catene delle forniture globali). Su tutte la guerra russa in Ucraina, che ha prosciugato i rifornimenti energetici a basso costo da Mosca, a lungo fonte di un felice vantaggio competitivo pure a costo di una dipendenza strategica alla fine rivelatasi fatale. Ma al netto di un’eredità ricevuta piena di ombre nonostante le apparenti luci, il ‘governo semaforo’ non è stato all’altezza delle grandi aspettative che aveva suscitato e del programma che aveva redatto e solennemente firmato.

Negli anni floridi in cui la globalizzazione aveva esaltato le virtù esportatrici dell’industria tedesca, il sottile veleno dell’assenza di investimenti nella modernizzazione del Paese aveva reso fragili le basi di quello stesso successo. A questo ritardo, che all’inizio degli anni Venti appesantiva già il sistema tedesco nella competizione con le vecchie e nuove economie rampanti globali, il governo di Scholz prometteva di mettere mano. Forte accelerazione verso un’industria a ridotto impatto ambientale e alla transizione energetica, incentivi all’automotive per il passaggio alla mobilità elettrica, modernizzazione delle infrastrutture dei trasporti e in particolare del settore ferroviario, digitalizzazione e creazione di un ambiente ideale per lo sviluppo di startup e imprese nel campo dell’innovazione tecnologica. Il tutto assistito da un rafforzamento della rete di protezione sociale a tutela sia delle fasce più deboli della popolazione che dei lavoratori, i cui salari contenuti contribuivano alla storica debolezza dei consumi interni.

Forse il principale errore di Olaf Scholz è stato quello di creare compartimenti stagni per ogni progetto, assegnando a ogni singolo partito una competenza esclusiva su politiche che costituivano anche il rispettivo mercato elettorale. Per cui ogni ministro è andato per conto proprio, sviluppando senza coordinamento programmi e politiche più secondo le linee guida del proprio partito che del programma di governo.

Così, per fare solo qualche esempio, il decantato pragmatismo dei verdi si è tradotto in leggi su energia e ambiente troppo ideologiche, zeppe di costosi sussidi pubblici e di regolamentazioni dettagliate e cervellotiche (quella sulla sostituzione delle caldaie è costata molti punti percentuali di consenso agli stessi verdi) e alla fine deleterie per le industrie costrette a una transizione forzata. E i programmi di modernizzazione – delle infrastrutture, dell’ambiente digitale e anche del quadro fiscale – si sono persi o nell’insipienza dei ministri liberali o nell’ostruzionismo (specie in materia fiscale) degli alleati.

Il risultato è stata una cacofonia che ha accompagnato quasi per intero il percorso del ‘governo semaforo’, accentuandosi tutte le volte che un’elezione regionale presentava il conto degli elettori. E che non poteva che finire anticipatamente nel modo più inglorioso: licenziamenti e accuse reciproche di tradimento.

di Pierluigi Mennitti

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