In queste ore, a meno di un mese dalla data stabilita per le elezioni in Libia – 24 dicembre, giorno in cui cadranno i 70 anni dall’indipendenza del Paese – siamo inclini a un certo pessimismo ragionato. Che origina da una domanda: nello stabilire la data elettorale non si sarà commesso l’errore di scommettere sulle elezioni come elemento di pacificazione anziché prima stabilizzare e poi andare al voto? Un dilemma politico che verrà sciolto soltanto dalla realtà nei prossimi giorni e settimane.
Intanto il caos in Libia non accenna a scemare. Bocciata la candidatura del figlio di Gheddafi, il generale Haftar si trova sul capo un ordine di arresto ordinato da un procuratore militare libico mentre la Corte d’Appello di Tripoli avrebbe accolto un ricorso contro la candidatura del premier ad interim Abdulhamid Dabiaba. Da giorni ci giungono cronache il cui unico tratto comune sembra la confusione, in una lotta di tutti contro tutti e di ora in ora s’inseguono notizie. Si parla di cittadini arrabbiati che avrebbero già fatto chiudere diversi uffici elettorali in alcune città mentre i dubbi sulla presunta irregolarità del voto aumentano di ora in ora.
C’è chi protesta contro Haftar, chi contro il figlio di Gheddafi, chi contro Dabiaba: una maionese impazzita di cui non si vede la fine. Lo abbiamo già scritto su questo giornale e lo ribadiamo: Francia e Italia, artefici della sfida politica del voto in Libia, intervengano. Saremo dei pessimisti ma abbiamo la sensazione che il tempo stia scadendo.
di Jean Valjean
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