La nuova sfida delle banlieue
| Esteri
Quanto sta accadendo oggi in Francia, i sociologi lo avevano previsto nel lontano 2005: “senza politiche inclusive le contestazioni sarebbero riesplose”

La nuova sfida delle banlieue
Quanto sta accadendo oggi in Francia, i sociologi lo avevano previsto nel lontano 2005: “senza politiche inclusive le contestazioni sarebbero riesplose”
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La nuova sfida delle banlieue
Quanto sta accadendo oggi in Francia, i sociologi lo avevano previsto nel lontano 2005: “senza politiche inclusive le contestazioni sarebbero riesplose”
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I sociologi lo avevano previsto fin dalle proteste del 2005: se la Francia non avesse adottato politiche profondamente inclusive, la contestazione delle periferie sarebbe riesplosa. È trascorso più di un decennio e la società francese ha visto prima l’inasprirsi della radicalizzazione delle comunità islamiche, culminata negli attacchi terroristici del jihadismo internazionale; in seguito sono venute le proteste delle fasce sociali colpite dalla crisi economica, su cui si sono inserite le provocazioni dei movimenti antagonisti. È accaduto nel 2018 (con la rivolta dei gilet jaunes per gli aumenti della benzina) e per ultimo nel 2023, con le proteste di giovani e quasi anziani contro l’elevazione dell’età pensionabile, una promessa in campagna elettorale mantenuta dal presidente Macron. La nuova contestazione è stata ora scatenata da un agente che ha ucciso Nahel, un giovane di 17 anni appartenente a una famiglia d’origine algerino-marocchina che non si era fermato all’alt della polizia.
Il paradigma francese dei troubles è quindi declinato da un complesso molto profondo di fattori destabilizzanti. Si parla del fallimento del modello di integrazione, su cui sarebbero prevalsi il retaggio razzista e coloniale delle classi agiate e del sistema di polizia. E c’è anche il trend della contemporaneità: il crescente distacco della società civile dal potere politico, incapace quest’ultimo di esprimere rappresentanze autorevoli e proporre nuovi modelli di coinvolgimento sociale dopo la crisi dei corpi intermedi, in specie dei partiti e dei sindacati.
Al dilagare delle proteste la reazione dello Stato sembra ancora concentrarsi sulla risposta di polizia, con oltre un migliaio di giovanissimi fermati e l’annuncio di leggi di emergenza. Il presidente Macron ha accusato i social di alimentare l’ondata di risentimento e ha ricordato ai genitori di vigilare sulla condotta dei figli. Molti analisti chiamano però in causa soprattutto le responsabilità del potere politico. La protesta ora è contro l’ingiustizia che assolve gli abusi della polizia, specie dopo che una legge del 2017 ha esteso la sua facoltà di ricorrere all’uso delle armi. Molti sociologi – fra questi il più noto è Sebastian Roché – criticano le scelte dei governi che di fronte all’esasperazione sociale hanno optato per la repressione piuttosto che ricercare il dialogo e ripensare la politica.
Il modello di gestione dell’ordine pubblico non è più basato sulla persuasione e sulla negoziazione, in ciò stravolgendo il patto sociale che legittima il monopolio dell’uso della forza delle polizie nelle moderne democrazie: può valere soltanto a condizione che vi si faccia ricorso in misura proporzionata alla gravità dei fatti e in ogni caso sotto un rigoroso controllo di legalità. Appaiono privilegiati invece gli orientamenti repressivi, ostentati negli assetti antisommossa, con armamenti pesanti e il ricorso a tecniche violente piuttosto discutibili. È il caso dell’impiego nelle manifestazioni di piazza di proiettili in gomma, comunque non innocui, e dei raid di unità speciali particolarmente aggressive, come quelle che a bordo di motocicli colpiscono in maniera indiscriminata i manifestanti. È evidente il rischio di derive illiberali se la politica rinuncia agli strumenti del dialogo e non è capace di reggere il confronto con la società.
Di Maurizio Delli Santi, Membro dell’Associazione Italiana di Sociologia
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