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La pace più difficile della guerra

La pace più difficile della guerra

I talebani di campagna si misurano malamente con la vita cittadina
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I talebani di campagna si misurano malamente con la vita cittadina
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I talebani di campagna si misurano malamente con la vita cittadina
In Occidente siamo abituati a vedere i talebani come dei guerrieri fanatici e spietati. E senza dubbio lo sono, ma questa lettura induce a sottovalutare il fatto che la stragrande maggioranza di loro sia composta da gente di campagna (afghana, non proprio la Pianura padana) che ha conosciuto per tutta la vita solo la realtà di una guerra combattuta contro il governo di Kabul, percepito come emanazione dei degenerati shayāṭīn (diavoli) statunitensi. Due preconcetti – quello occidentale e quello islamista – uguali e contrari che, a più di un anno e mezzo dalla riconquista talebana dell’Afghanistan, esplodono in tutta la loro puerilità.
Sabawoon Samim del Centre on Armed Groups ha infatti intervistato cinque talebani ora membri della struttura nazionale del nuovo Emirato del miramolino Hibatullah Akhundzada, traendone commenti del tutto comprensibili per dei guerrieri ora mutati in talpe da ufficio. «Ero undicenne quando ci invasero gli americani» racconta Omar Mansur, trentaduenne padre di cinque bambini, «ma tre anni dopo lasciai gli studi nella madrāsa per andare in tashkīl (periodo passato in una formazione combattente)». Durante la guerra era stato promosso a sar (capo) di un gruppo di combattenti e dopo la vittoria – chiamata da loro fataḥ – il suo dilgai meshr (comandante) gli ha fatto avere come ricompensa un lavoro da capoufficio in un Ministero nella capitale. «È una città molto bella dove uzbechi, pashtun e tagichi vanno nella stessa moschea e che fa impallidire qualsiasi luogo della provincia di Paktika da dove provengo, ma il traffico è insopportabile. Ci accusano di aver impoverito il Paese ma poi sono sempre in giro in auto o nei bazar e nei ristoranti. Nei primi mesi era difficile abituarsi all’idea di stare in ufficio dalle 8 alle 16, ma abbiamo imparato. Se di venerdì non torno a casa vado nei giardini di Paghman per incontrare i miei amici di tashkīl». L’ex lizari (cecchino) Huzaifa ha avuto altri problemi dopo essere stato assegnato a un masuliat (lavoro ufficiale) di polizia: «Durante il jihād dovevamo soltanto pianificare i ta’aruz (attacchi). Arrivati qui invece abbiamo dovuto fare cose mai viste come parlare con donne sconosciute per raccogliere le loro denunce. All’inizio ci nascondevamo da loro ma poi il nostro comandante ci ha detto che secondo la shari’a si può fare perché è parte dei nostri doveri di poliziotti». Osserva che almeno in città la gente non s’impiccia della tua vita e ammette che ha addirittura preso ad ascoltare musica quando è in auto coi suoi amici per andare allo zoo di Kabul, «ma soltanto a patto di abbassarla se ci avviciniamo ai checkpoint dei miei colleghi». Kamran – già vice sar – è abbastanza felice del suo nuovo lavoro al Ministero dell’Interno ma gli mancano «i tempi del jihād». Prima i talebani «avevano una motocicletta, una ricetrasmittente, la moschea e basta. Ora, quando propongono loro un lavoro, chiedono invece subito se è compresa l’auto». Abdul Nafi è invece un ex combattente che il suo dilgai meshr ha fatto iscrivere a due corsi (uno d’inglese, l’altro per saper usare il computer) «ma c’è poco lavoro e spendo il mio tempo su Twitter. Molti mujāhidīn hanno questa dipendenza». La delusione più cocente l’ha avuta però Abdul Salam, anch’egli ora poliziotto: «Stavo facendo autostop per andare a Kandahar quando un vecchio si è fermato per sfottermi e chiedermi, visto che il jihād era concluso, di restituire l’aiuto economico e logistico che ci era stato fornito in questi anni». Per i talebani afghani la guerra è facile, ben più difficile la pace.
di Camillo Bosco  

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