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L’amaro cacao prodotto con il lavoro minorile

Il cioccolato è un piacere irrinunciabile ma pochi sono a conoscenza delle condizioni disumane vissute da chi lavora la materia prima, soprattutto bambini africani tra i 10 e gli 11 anni. E le grandi industrie, impassibili.
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La festa degli innamorati è quasi alle porte e quale sarà il regalo più in voga se non una scatola di cioccolatini? Con poca spesa si addolciscono gli animi e si fa ‘bella figura’, ma prima di acquistare per abitudine dovremmo rintracciare da dove viene la materia prima e riflettere sui metodi adottati per realizzare il prodotto finito. Dietro allo sfruttamento del lavoro risiede la logica per la quale si vuole produrre a basso costo per vendere a prezzi alti e di conseguenza far guadagnare all’azienda il più possibile. Per questo molte multinazionali – quelle che Joel Bakan paragona a uno squalo progettato per uccidere – sfruttano il lavoro minorile per arricchirsi.

La produzione di cioccolato è un caso al riguardo: tanti bambini specialmente dell’Africa Occidentale vengono schiavizzati nelle piantagioni di cacao, spesso senza ricevere alcuna retribuzione. Sono costretti al lavoro forzato in condizioni disumane e i loro diritti vengono letteralmente calpestati. Per povertà o mancanza di prospettive future, addirittura alcuni di loro vengono venduti o rapiti, entrando in un traffico di schiavi bambini che ancora oggi è senza sosta.

La Costa d’Avorio è il più grande produttore di cacao al mondo, rifornendo più del 40% del mercato globale, con una produzione di circa un milione e mezzo di tonnellate all’anno. Qui arrivano illegalmente bambini a partire dai 10-11 anni soprattutto maliani, ma anche provenienti da Ghana, Burkina Faso, Niger e Nigeria. Svolgono un lavoro molto pericoloso con maceti, carichi pesanti, turni senza sosta, condizioni sanitarie inadeguate e percosse quotidiane; spesso sono denutriti e non viene conferita loro alcuna paga. Raccolgono le cabosse di cacao, le cui fave vengono fatte essiccare al sole, poi lavate, insaccate e vendute in Europa e America. Qui vengono trasformate in cacao e successivamente in cioccolata. Da 20 cabosse si estraggono 800 fave di cacao, equivalenti a 1 kg di cioccolato, pagate 1 euro al produttore di cacao africano e vendute sul mercato a un prezzo 30 volte e oltre superiore.

Nel 2001 è stato sottoscritto il “Protocollo Harkin-Engel” con il quale dopo il 2008 sarebbero stati proibiti il traffico di bambini e il lavoro minorile per la produzione di cacao (Articolo 3.a); eppure la situazione è rimasta quasi immutata, con milioni di bambini che ancora lavorano disumanamente nei campi di cacao. I presidenti delle industrie più famose di cioccolato (fra questi Bradley Alford per Nestlé, Paul Michaels per M&M e Mars, Andreas Schmid per Barry Callebaut e G. Allen Andreas per Archer Daniels Midland) firmarono a suo tempo l’accordo ma sono stati poi i primi a non rispettarlo.

Come tecnica di marketing, molte imprese si mostrano eticamente e socialmente responsabili, ma la realtà è ben altra. C’è poca sensibilizzazione e i cambiamenti reali sono quasi nulli. Nonostante siano passati vent’anni dalla firma del Protocollo, il flusso clandestino di innocenti non sembra volersi arrestare.

 

di Lucia Valentini

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