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Le cause interne del conflitto in Sudan

Nonostante gli appelli al cessate il fuoco, continuano gli scontri in Sudan, dilaniato da un regolamento di conti interni
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Le cause interne del conflitto in Sudan

Nonostante gli appelli al cessate il fuoco, continuano gli scontri in Sudan, dilaniato da un regolamento di conti interni
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Le cause interne del conflitto in Sudan

Nonostante gli appelli al cessate il fuoco, continuano gli scontri in Sudan, dilaniato da un regolamento di conti interni
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Nonostante gli appelli al cessate il fuoco, continuano gli scontri in Sudan, dilaniato da un regolamento di conti interni
«Al-Naṣr lanā! A noi la Vittoria!» recita il motto della Repubblica del Sudan. Noi chi, però? Sabato scorso le Rapid Support Forces (Rsf), una formazione paramilitare guidata dal generale Muẖammad H̱amdān Dagalo detto “Hemetti” e da suo fratello Abdul, si sono mosse contro il proprio stesso governo. Un Paese, il Sudan, non nuovo a simili crisi dalla sua indipendenza nel 1956. Già due anni dopo si ebbe infatti il primo colpo di mano delle Forze armate sudanesi, come risposta alle tensioni tra il Nord musulmano e il Sud cristiano e animista. Circostanza che si ripeté nel 1969. E nel 1971, nel 1976 e nel 1985. Nel 1989 avvenne quindi l’ennesima presa del potere, stavolta a opera del longevo feldmaresciallo ʿOmar al-Bashīr. Nel 2011 – sotto pressioni internazionali – fu lui ad acconsentire alla necessaria scissione tra Sudan e Sud Sudan che pose fine alla guerra civile ma lasciò però anche un’altra eredità invece assai pericolosa. Per tacitare le popolazioni non arabe delle aree occidentali conosciute come Darfur, ricche di giacimenti d’oro, il dittatore impiegò infatti dei guerrieri chiamati dai perseguitati janjāwīd, “demoni a cavallo”. Nel 2013 queste milizie – create per assicurare che le operazioni minerarie si svolgessero senza interruzioni – furono elevate al rango di unità formale col nome di Rsf ma, sebbene fossero state subordinate al Ministero della Difesa, era comunque chiara a chiunque la loro natura di milizia privata del dittatore. Se il governo emerso dopo la deposizione di al-Bashīr nel 2019 aveva deciso di non sciogliere questo corpo di circa 100mila soldati per evitare tensioni, nel 2021 un ulteriore putsch aveva portato al potere i militari. Una giunta governata dal generale Abdel Fattah al-Burhan, con il potente e ricco (grazie all’oro darfuriano) Dagalo “Hemetti” quale vice. Le ripetute richieste di al-Burhan di integrare le Rsf nell’esercito sudanese e la scomoda posizione subordinata hanno però portato alla fine della collaborazione di Hemetti, che quindi tre giorni fa ha scatenato i suoi uomini contro il rivale. La crisi attuale è quindi un regolamento di conti tra i poteri interni delle Forze armate sudanesi, nonché diretto figlio dei disequilibri economici creatisi durante la guerra nel Darfur. Se è vero che le truppe dei fratelli Dagalo sono state addestrate dai mercenari del Gruppo Wagner di Prigožin (questi ultimi impegnati anche nella difesa delle miniere sudanesi), persino l’Italia aveva assolto allo stesso compito schierando almeno 12 istruttori. Nel febbraio dell’anno scorso Hemetti era poi volato a Mosca per discutere la possibilità di una base russa sul Mar Rosso, ma anche Al-Burhan non disdegnava questo progetto strategico. Nonostante gli attuali appelli unanimi al cessate il fuoco, provenienti dalla Russia come dagli Stati Uniti, gli scontri proseguono. L’aeroporto di Khartum è stato devastato nel tentativo di negarsi l’un l’altro l’aviazione, mentre giungono rapporti sull’avanzata di truppe di Al-Burhan nel Darfur controllato da Hemetti. L’unica certezza è il fallimento del blitz della Rsf; ora il Sudan dovrà affrontare l’ennesimo conflitto interno, finché una delle due parti non potrà proclamare la sua vittoria. di Camillo Bosco

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