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L’Iran e la difficile vita dei suoi giovani

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Se fossi nato in Iran non avrei mai conosciuto la democrazia. Nel 1953, anno della mia nascita, si consumò infatti il colpo di Stato che portò al potere Reza Pahlavi. Dal 1979 c’è una feroce teocrazia

L’Iran e la difficile vita dei suoi giovani

Se fossi nato in Iran non avrei mai conosciuto la democrazia. Nel 1953, anno della mia nascita, si consumò infatti il colpo di Stato che portò al potere Reza Pahlavi. Dal 1979 c’è una feroce teocrazia

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L’Iran e la difficile vita dei suoi giovani

Se fossi nato in Iran non avrei mai conosciuto la democrazia. Nel 1953, anno della mia nascita, si consumò infatti il colpo di Stato che portò al potere Reza Pahlavi. Dal 1979 c’è una feroce teocrazia

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Se fossi nato in Iran non avrei mai conosciuto la democrazia. Nel 1953, anno della mia nascita, si consumò infatti il colpo di Stato che portò al potere Reza Pahlavi. Dal 1979 c’è una feroce teocrazia. “Miga” (Make Iran Great Again) è il nuovo slogan lanciato da Trump insieme alle bombe. Bombe che dall’Ucraina a Gaza all’Iran hanno infilato Usa, Russia e Cina nella nota “trappola di Tucidide”. Una trappola in cui lascerei i diretti contendenti, per limitarmi a una considerazione relativamente a quel Paese al cui vertice c’è la ‘guida suprema’ Ali Khamenei.

Se i miei coetanei iraniani del 1953 non sanno cosa sia vivere in democrazia, quelli nati dopo il 1979 non hanno conosciuto altro regime se non quello della teocrazia. Tutto questo in un Paese in cui oltre la metà della popolazione non supera i 35 anni. «Durante la rivoluzione di Khomeini mio padre aveva 25 anni e come tutti partecipava alle manifestazioni contro lo shah, ma nessuno di loro si aspettava quello che è successo dopo» dice un giovane di Teheran. «L’Iran è precipitato in un baratro. Quarant’anni fa era uno dei Paesi più moderni del Medio Oriente. Ora c’è una netta separazione tra vita pubblica e privata. In casa uno fa quel che vuole: le donne sono senza velo, si bevono alcolici, si fanno feste, si balla, si parla di tutto. Ma quando si esce bisogna indossare una maschera. Non mi sento mai a mio agio quando sono fuori casa, ho sempre paura della polizia per qualsiasi cosa».

Parole che mi ricordano un iraniano conosciuto alla fine degli anni Settanta, in coincidenza con la rivoluzione khomeinista. Si chiamava Qasem e aveva avviato un buon commercio di tappeti con l’Italia. Dopo la rivoluzione era rimasto nel nostro Paese. Quando, anni dopo, aveva avuto la possibilità di tornare a Teheran per andare a trovare la sua famiglia, la stessa sera del suo arrivo aveva chiesto a un suo fratello di poter festeggiare. Ovviamente con alcol. Quello fece una faccia strana, ma poi disse ok. Andarono quindi in un’abitazione privata dove acquistarono anche whisky. Arrivati a casa, il fratello era scoppiato a ridere senza freno. Un riso isterico, però: «Se ci avessero beccato per strada ci avrebbero dato un po’ di frustate e denunciati, oltre a sequestrarci quel che avevamo». Situazioni per noi distanti anni luce. E allora? Ci vuole la democrazia. Già, ma come? La sua ‘esportazione’ ha fatto più danni della peste nel Seicento: ci siamo già dimenticati dell’Afghanistan?

Resta tuttavia irrisolto e forse irrisolvibile in tempi brevi la questione di un Paese in cui i giovani – uomini e donne – premono per seguire l’indicazione della band inglese dei Little Mix («Change Your Life»), che probabilmente, grazie alla Rete, ascoltano a casa. Se all’inizio della rivoluzione era più facile per la teocrazia khomeinista tenere sotto il tacco della dittatura anche le fasce più giovani della società, con Internet per oltre la metà della popolazione (i già citati under 35) vivere in Iran è diventato sempre più faticoso. Oltremodo frustrante per le giovani donne, costrette in una suburra culturale che le vede ossequiose di costumi tribali, subalterne ai loro padri, fratelli mariti alla stessa stregua di cento o duecento anni prima. Ma vi sembra accettabile che a oltre due secoli da quella Rivoluzione francese che regalò al mondo la separazione fra laicità e religione, ci siano ancora centinaia di milioni di persone vessate da vecchi barbagianni che controllano l’etica di un Paese con le “guardie della moralità” (un’espressione che mi ripugna perfino scrivere)?

di Pino Casamassima

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