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Lo strazio di Kharṭūm

Rsf e Saf si dimostrano disinteressate a una composizione pacifica della crisi sudanese
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Lo strazio di Kharṭūm

Rsf e Saf si dimostrano disinteressate a una composizione pacifica della crisi sudanese
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Lo strazio di Kharṭūm

Rsf e Saf si dimostrano disinteressate a una composizione pacifica della crisi sudanese
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Rsf e Saf si dimostrano disinteressate a una composizione pacifica della crisi sudanese
Kharṭūm è una città straziata, capitale di un Paese che cammina sul ciglio della guerra civile. Gli italiani e gli altri stranieri che hanno espresso il desiderio di andarsene sono stati caricati sugli aerei militari e hanno abbandonato il Sudan (chi via Gibuti, chi via Egitto o altri Stati confinanti), ma gli autoctoni non hanno molte alternative. Persino i rifornimenti di cibo arrivano a singhiozzo nella città e, come hanno imparato i civili evacuati, anche attraversare pochi quartieri può significare affrontare numerosi checkpoint armati. Che i posti di blocco siano gestiti dai paramilitari delle Rapid support force (Rsf) dei fratelli Dagalo o dai soldati delle Forze armate sudanesi (Saf) sotto il comando del generale al-Burhān poco importa, come hanno dimostrato le aggressioni ai convogli occidentali nei primi giorni. La salvezza raggiunta non rende poi ciechi rispetto alle scene a cui hanno assistito gli evacuati, aneddoti inquietanti di un caos generale ancora difficile da quantificare. «Abbiamo visto fabbriche, veicoli e palazzi ancora in fiamme mentre ci allontanavamo» racconta il venticinquenne palestinese Khamis Jouda, studente di medicina in Sudan, al giornalista Nidal Al-Mughrabi di “Reuters”. «Non avevo mai visto violenze simili». Una frase di un certo peso, se pronunciata da un palestinese. «Non ci aspettavamo bombardamenti da parte di caccia e droni in una disputa interna» continua Jouda «e ognuno ha temuto per la propria vita mentre avvenivano razzie e scontri con armi da fuoco anche fra residenti, intanto che aumentavano i cadaveri disseminati nelle strade. Ho visto persino ragazzini portarsi dietro dei machete per proteggersi».   Al momento è in corso una tregua di 72 ore accettata sia dalle Rsf sia dalle Saf su pressione statunitense e saudita, ma ieri esplosioni e sparatorie si sono udite sulla riva Ovest del Nilo. Lì la capitale si fonde senza soluzione di continuità con la città di Omdurman e i droni di al-Burhān hanno bersagliato alcune posizioni degli uomini dei Dagalo, che hanno cercato di abbatterli con le armi leggere. Ennesima testimonianza che, nonostante le Saf rappresentino il governo legittimo del Paese, entrambi i contendenti vedono queste tregue come mere pause riorganizzative fra uno scontro e un altro. Una realtà confermata da Volker Perthes, l’inviato speciale Onu per il Sudan, che ha riferito al Consiglio di sicurezza come «le due parti in causa non si sono ancora dimostrate pronte ad affrontare con serietà i negoziati, essendo ancora intente a cercare una vittoria militare sull’avversario». La dinamica attuale vede così le Rsf intente a trincerarsi all’interno delle aree residenziali, mentre le Saf ricorrono alla superiorità aerea per stanarle. Una tattica scriteriata in un contesto urbano ancora molto abitato, nonostante un fiume di persone continui ogni giorno ad abbandonare la capitale. Al disastro si è aggiunta poi l’occupazione di un laboratorio dell’Oms da parte di un gruppo non identificato, portando l’organizzazione internazionale a esprimere preoccupazione per lo stato di conservazione dei patogeni lì stoccati. Per ora ci sono quindi poche speranze per un ritorno dell’ordine in Sudan, mentre lo strazio di Kharṭūm continua. Di Camillo Bosco

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