Maga, Trump e il destino dell’America più grande
Maga, l’America di nuovo grande, è messaggio western, da saloon, che non fa altro che far intendere che gli statunitensi sono i più forti, sono i più grandi
Maga, Trump e il destino dell’America più grande
Maga, l’America di nuovo grande, è messaggio western, da saloon, che non fa altro che far intendere che gli statunitensi sono i più forti, sono i più grandi
Maga, Trump e il destino dell’America più grande
Maga, l’America di nuovo grande, è messaggio western, da saloon, che non fa altro che far intendere che gli statunitensi sono i più forti, sono i più grandi
Partiamo da un cappellino – rosso, con visiera – che Donald Trump aveva in testa nelle ore dell’attacco americano ai siti nucleari in Iran. Sopra c’era stampato uno slogan trito e ritrito, come una ribollita: Maga. Acronimo del tormentone “Make America Great Again”, vero e proprio claim della campagna elettorale del tycoon. Il fatto che Trump lo avesse indosso ha scatenato subito quelle che potremmo definire psicanalisi da retroscena, con poche analisi e molta scena.
Alcuni media negli Usa ma soprattutto numerosi in Europa e numerosissimi in Italia hanno iniziato a sciorinare l’argomento che Trump avesse sul capo quel berretto per la sua base Maga, ritenuta in gran parte contraria all’attacco all’Iran. Insomma, un modo per dire ai popolo trumpiano: io sono ancora Maga. Il fatto è che di questa spaccatura della base profonda del trumpismo non vi è traccia sensibile. Concreta. Almeno per adesso. Intendiamoci, alcuni uomini di riferimento di quel mondo come il giornalista Tucker Carlson e il consigliere Steve Bannon hanno detto esplicitamente, peraltro prima della decisione dell’attacco Usa, di essere contrari a un qualsiasi intervento a stelle e strisce in Iran. Ma possono essere considerati loro, oppure qualche mal di pancia di qualche eletto repubblicano al Congresso, la base Maga? Suvvia, non scherziamo.
Maga non è un claim da programma politico ma semmai un sentimento che ha intercettato lo spirito dei tempi americani odierni, comprese l’insofferenza e le frustrazioni della pancia profonda degli Usa. E in questo, a dirla tutta, il bombardamento all’Iran non è affatto in contraddizione con lo spirito Maga. L’America di nuovo grande è infatti messaggio western, da saloon, che non fa altro che far intendere che gli statunitensi sono i più forti, sono i più grandi. Come può uno spirito del genere, da frontiera e da oltre frontiera, fermarsi all’isolazionismo? Non può, perché la grandezza oggi (come in passato) la si misura nel mondo e non certo in Missouri o in Arizona. Ecco allora che quella che in apparenza – soprattutto da noi in Italia e in Europa – è stata letta come la prima vera contraddizione del trumpismo, non fa altro che rivelarci la sua natura più profonda.
Prendiamo, per dare un quadro ancora più completo della situazione, alcune uscite di Trump: il Canada come 51esimo Stato americano, la Groenlandia che dovrebbe essere statunitense, il Golfo del Messico ribattezzato Golfo d’America. Cosa c’è di isolazionista in queste uscite, sinora rimaste soltanto parole (tranne il cambio del nome al Golfo)? Di isolazionista non v’è nulla. Semmai vi è un sentimento espansionista, per rendere l’America di nuovo non soltanto grande ma più grande.
Ecco, usando questo termometro e mettendo in fila tutte le cose sinora evidenziate si può ben comprendere come la politica Maga, per sua stessa natura, non possa limitarsi a restare dentro gli Stati Uniti. Non può farlo perché entrerebbe in contraddizione con sé stessa e con l’esprit du temps che incarna, uno spirito dove la cultura di massa apporta e alimenta miti nell’immaginario e nelle aspettative di una comunità. Miti anche di destino. Questa è la rivoluzione Maga trumpiana, un rovesciamento stesso dell’idea politica dei repubblicani americani (idea che era già cominciata a mutare nell’epoca di George W. Bush, ma senza stravolgersi rispetto al passato). Altro che la mega (anzi Maga) bischerata dell’isolazionismo.
di Massimiliano Lenzi
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