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“Alcuni non li riconosco più”, il racconto di Karina sui giovani soldati ucraini

I giovani soldati ucraini al fronte sono sconvolti, forse irrecuperabili: “non riconosco più alcuni di loro”, mi racconta Karina, ragazza ucraina che ho incontrato nel centro di Leopoli. Nelle sue parole la forza di una resistenza audace, il coraggio di quei protagonisti che abbiamo l’obbligo di non dimenticare.
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“Alcuni non li riconosco più”, il racconto di Karina sui giovani soldati ucraini

I giovani soldati ucraini al fronte sono sconvolti, forse irrecuperabili: “non riconosco più alcuni di loro”, mi racconta Karina, ragazza ucraina che ho incontrato nel centro di Leopoli. Nelle sue parole la forza di una resistenza audace, il coraggio di quei protagonisti che abbiamo l’obbligo di non dimenticare.
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“Alcuni non li riconosco più”, il racconto di Karina sui giovani soldati ucraini

I giovani soldati ucraini al fronte sono sconvolti, forse irrecuperabili: “non riconosco più alcuni di loro”, mi racconta Karina, ragazza ucraina che ho incontrato nel centro di Leopoli. Nelle sue parole la forza di una resistenza audace, il coraggio di quei protagonisti che abbiamo l’obbligo di non dimenticare.
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I giovani soldati ucraini al fronte sono sconvolti, forse irrecuperabili: “non riconosco più alcuni di loro”, mi racconta Karina, ragazza ucraina che ho incontrato nel centro di Leopoli. Nelle sue parole la forza di una resistenza audace, il coraggio di quei protagonisti che abbiamo l’obbligo di non dimenticare.
Lviv – Camminando per il centro storico di Leopoli non è difficile comprendere come mai sia stato inserito dall’Unesco nella lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità. Ogni sampietrino del lastricato è intriso della storia quasi millenaria di quella che fu la capitale del regno asburgico di Galizia – poi contesa da nazisti e comunisti – e oggi sede delle più prestigiose università ucraine. La “piccola Parigi dell’Est”, come viene spesso chiamata, è a tal punto carica d’arte e di storia da essere considerata la capitale culturale dell’Ucraina. È assurdo pensare che i missili russi siano caduti poco lontano da questo museo a cielo aperto, eppure è successo. Passeggiando per il centro incontro Karina, una giovane donna che mi racconta di come qualche mese fa, temendo il peggio, si fossero preparati a fronteggiare l’invasore russo. Mi indica dov’erano disposti i cavalli di Frisia, costruiti lavorando giorno e notte per fermare l’avanzata dei tank russi che incedevano verso molte città e i cui resti sono ora esposti per queste vie come trofei. I monumenti erano stati coperti con sacchi di sabbia per preservare il patrimonio artistico del Paese e con esso la memoria della propria stessa esistenza. Un bene comune, come la terra, verso cui ogni buon ucraino riserva un senso di protezione quasi materno. Il suo compagno Yura si è subito unito ai comitati di difesa territoriale, costituiti per lo più da cittadini. Mi parla del percorso che facevano durante la ronda notturna, dandosi il cambio per pattugliare tutta la città, e si sofferma sulla volta in cui da solo ha identificato e fermato alcuni sabotatori russi. Karina lo interrompe per descrivere un’esperienza recente che l’ha molto toccata: un paio di giorni fa lei e Yura hanno trascorso qualche ora con dei giovani ragazzi ucraini reduci dal fronte. Il loro sguardo, racconta, l’ha lasciata atterrita, senza parole: era perso nel vuoto, sgranato, inespressivo. Si muovevano continuamente, prestando attenzione a ogni più piccolo dettaglio e ascoltando le conversazioni dei vicini, in cerca di avvisaglie di minacce o spie. Karina parla russo ma è ucraina. Di Mariupol. Le dico che, per ignoranza, spesso in Italia un russofono viene confuso con un russofilo e questo la offende molto. «Ma quale guerra civile? Il 70% degli eroi d’acciaio di Azov parla russo, eppure i russi li combattono» dice, aggiungendo subito dopo: «I nostri ragazzi avranno bisogno di un forte supporto psicologico. Sono sconquassati in modo forse irrecuperabile. Non riconosco più alcuni di loro». Ascoltandola, mi torna alla mente un passaggio di “Tempo di uccidere”, di Ennio Flaiano: «Forse si tratta di un male più sottile e invincibile ancora, quello che ci procuriamo quando l’esperienza ci porta cioè a scoprire quello che noi siamo veramente. Io credo che questo sia non soltanto drammatico, ma addirittura tragico». Qualche giorno fa, citando il film “Rambo”, Massimiliano Lenzi scriveva su queste pagine del disagio patito da molti reduci rimpatriati dal Vietnam. Le parole di Karina descrivono il malessere di quegli eroi che oggi aiutano noi, disponendo di attrezzature da milioni di dollari, ma che domani saranno misfit, se non saremo noi ad aiutarli. Di Giorgio Provinciali

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