Trumpnomics
La domanda da porsi è se la Trumpnomics stia facendo bene agli Stati Uniti e alle economie dei suoi Paesi alleati, le democrazie europee e non
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La domanda da porsi è se la Trumpnomics stia facendo bene agli Stati Uniti e alle economie dei suoi Paesi alleati, le democrazie europee e non
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La domanda da porsi è se la Trumpnomics stia facendo bene agli Stati Uniti e alle economie dei suoi Paesi alleati, le democrazie europee e non
C’è stata un’era dell’economia americana, dal 1981 al 1989, che per le sue scelte rivoluzionarie e pro mercatovolute dal presidente Usa di allora (il repubblicano Ronald Reagan) è ancora oggi definita Reaganomics. Da allora sono passati più di quarant’anni e alla Casa Bianca adesso siede un altro repubblicano, Donald Trump, che in economia (e non solo) sta portando numerosi e vasti cambiamenti. Che con Reagan non hanno niente a che vedere nel merito ma semmai nel metodo, quello della radicalità di queste scelte. Perciò la domanda da porsi è se la Trumpnomics stia facendo bene agli Stati Uniti e alle economie dei suoi Paesi alleati, le democrazie europee e non.
Partiamo dagli Usa. I numeri recenti sulla contrazione dell’economia a stelle e strisce non sono certo un dato confortante. La frenata del Pil che registra un meno 0,5% (nel primo trimestre) non era stata prevista in queste dimensioni. Quanto al dollaro e al suo indebolimento, è un fatto che viene spesso considerato anch’esso non confortante rispetto alle scelte economiche trumpiane. Si tratta però d’intendersi: se la logica di Trump è diminuire le importazioni dall’estero e accrescere le esportazioni Usa nel mondo, un dollaro più debole di certo aiuta questa possibilità (ma aumenta il costo del debito pubblico).
I dazi sono la leva su cui il presidente americano ha scommesso per innescare una crescita dell’export Usa e una diminuzione dell’import. Su questo – fra annunci di dazi imposti, di scadenze entro cui trattare con gli altri Paesi prima che entrino in vigore le tariffe daziarie e rinvii delle date di queste scadenze – si può dire che la politica trumpiana è stata sinora ondivaga e non vincente.
La questione è che The Donald non può non fare i conti con la realtà. Prendiamo i rapporti commerciali con l’Unione Europea, una comunità composta da Paesi alleati e amici dell’America. Che senso ha imbastire un braccio di ferro – di cui per adesso non si vede il punto di caduta, al di là di una serie di annunci da entrambe le sponde dell’Atlantico – e al tempo stesso annunciare accordi sullo stesso tema con la Cina comunista (ma globalista in economia) di Xi Jinping, che fra l’altro è il principale avversario sulla scena mondiale e geopolitica degli Stati Uniti d’America?
Ecco allora che qui le contraddizioni della Trumpnomics vengono al pettine, evidenziando un altro aspetto che rischia di diventare un vero punto debole per le scelte del presidente Usa agli occhi degli americani: il debito. Nell’ottica di Trump gli incassi dei dazi dovrebbero servire al programma di rilancio che prevede, fra le altre cose, una manovra di forti tagli alle tasse. Se gli incassi non si riveleranno quelli previsti sarà un problema.
Nasce anche da qui la polemica continua di Trump con il governatore della Banca centrale americana (Fed) Jerome Powell. Trump insiste da tempo affinché tagli i tassi d’interesse (un modo per ridurre i debiti privati degli americani) ma il capo della Fed si oppone. E non taglia, suscitando le ire di Trump: «È troppo tardi» ha scritto il presidente Usa. «Jerome Powell sta costando al nostro Paese centinaia di miliardi di dollari. È davvero una delle persone più stupide e distruttive nel governo, e il consiglio della Fed è complice». Quello su cui dovrebbe riflettere Trump in realtà è molto più semplice e riguarda le scelte sui dazi. Le sue.
Massimiliano Lenzi
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