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Viaggio a Syunik, il silenzio di un paese

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Qui, nella provincia di Syunik, la popolazione è calata del 20% in pochi anni, a causa dei conflitti e della fuga verso altre località

Syunik

Viaggio a Syunik, il silenzio di un paese

Qui, nella provincia di Syunik, la popolazione è calata del 20% in pochi anni, a causa dei conflitti e della fuga verso altre località

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Viaggio a Syunik, il silenzio di un paese

Qui, nella provincia di Syunik, la popolazione è calata del 20% in pochi anni, a causa dei conflitti e della fuga verso altre località

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Tegh – Otto uomini seduti nella piazza centrale vegliano sul silenzio di un paese che appare vuoto. Ogni passo suona violento in questa assenza di rumori. Nessuno vuole parlare, si scambiano occhiate e fanno melina. Hasmik, che mi accompagna, prova a soffiare sul loro orgoglio: «Non capita tutti i giorni di avere un reporter internazionale da queste parti». «Se è per questo, neppure quelli armeni mettono piede qui» risponde Artur, l’unico loquace del gruppo. Cede, ci guida pochi metri più in là e giustifica i suoi amici: «Non parleranno, temono problemi con il governo». Indica le postazioni azere sulle montagne davanti a noi: «Una volta erano a più di 100 km da qua, ora a poche centinaia di metri. Occupano le terre coltivate dai nostri nonni e – continua – sentiamo i loro spari ogni notte».

Fino al 2020 la linea di contatto fra armeni e azeri era infatti ai piedi del confine naturale del Piccolo Caucaso, a Est. Ma dopo la cosiddetta guerra dei 44 giorni, le Forze armate dell’Azerbaigian avevano circoscritto la presenza armena nel Karabakh montuoso alla sola enclave dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh. Quest’ultima era collegata alla Repubblica di Armenia da un corridoio – garantito dai russi fino al 2023 – che coinvolgeva anche Tegh. Qui, nella provincia di Syunik, la popolazione è calata del 20% in pochi anni, a causa dei conflitti e della fuga verso altre località. Chi resta ha paura di perdere il poco che ha. «Abbiamo un pezzo di terra. Possiamo coltivare patate e qualcosa per l’inverno. In città (a Yerevan) cosa andremmo a fare?» sostiene Artur.

Le grida di bambini che giocano più in là rompono la quiete di Tegh. La gioia per un goal si riconosce ovunque e in qualunque lingua. Hanno dai 9 ai 14 anni e corrono su un campetto di cemento coperto da teli di sintetico consumato. Tra quelli in panchina c’è Gayane, 10 anni. Vorrebbe diventare una dottoressa, ma non qui. Sogna Yerevan. In campo Samvel, 12 anni, sfida da solo Movses (14) e Vardan (10). «Vuoi fare il calciatore?» gli chiediamo. Fa spallucce, dribbla Movses e segna. In dieci minuti si è portato sul 4 a 1. Movses e Vardan vengono ‘salvati’ da un improvviso acquazzone. Tutti scappano, tranne gli uomini che ci avevano accolto all’arrivo. Sotto una tettoia anche loro giocano. Forse a morra, forse a carte. Non sono più silenziosi.

L’unico riparo per noi è a una ventina di metri dal campetto: un ombrellone di lamiera all’interno del cimitero dei caduti fra il 2020 e il 2023. Scorrendo le lapidi, il più vecchio aveva 32 anni e il più giovane 19. Sotto un altro ombrellone si ripara una signora accompagnata da due bambine. È una dei 120mila rifugiati dell’Artsakh, quell’exclave armena sgomberata con la forza dall’esercito dell’Azerbaigian tra il 19 e il 20 settembre 2023: la fine della presenza millenaria armena nel Nagorno-Karabakh. La signora dice di avere quattro figli e che il marito fa la sentinella in una delle forze di difesa locale: «È l’unico introito della nostra famiglia». E per far quadrare le cose, anche loro coltivano patate.

Incurante della pioggia, ci raggiunge Armine, molto attiva in paese. Anche lei segnala che da Tegh si sentono gli spari dei soldati azeri «ogni notte a orari fissi: alle 22.20, alle 23.00, a mezzanotte, a mezzanotte e venti, alle 2.00 e alle 4.00». Dice di averci fatto l’abitudine. La preoccupa di più il taglio dell’Usaid, l’agenzia Usa pressoché smantellata dal (fu) duo Trump-Musk. «Una telefonata un venerdì ci anticipava che lunedì avremmo ricevuto una mail per ufficializzare la cancellazione dei fondi», sgrana gli occhi come fosse ora. «Mettevamo a terra molti progetti di sviluppo per contenere lo spopolamento. Abbiamo dovuto ridimensionare tutto. Ora sarà davvero difficile».

Nel confronto successivo con Hasmik, figlia di questa provincia, è chiaro che neppure lei fosse fino in fondo a conoscenza della pressione azera su questa linea di confine. Il silenzio iniziale del ‘comitato di benvenuto’ di Tegh trova un senso.

di Giacomo Ferrara

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