Walkie, togliersi la vita per non ucciderla
Walkie, togliersi la vita per non ucciderla
Walkie, togliersi la vita per non ucciderla
«Sulla mia anima sento il peccato dell’omicidio, non posso e non voglio prendermi questa responsabilità»: 27 anni, l’artista russo Walkie è morto suicida il 30 settembre nel timore d’essere chiamato alle armi. Scelta estrema, difficile da condividere ma dalla quale è impossibile prescindere: il fatto che un giovane possa rinunciare alla vita per celebrare la vita sovverte le nostre logiche. Il 16 gennaio 1969 lo studente Jan Palach s’immolava a Praga contro l’invasione dei carri sovietici: «Non voglio suicidarmi, mi sono dato fuoco per protestare contro la mancanza di libertà» disse a chi lo soccorse.
Avvertire il «peccato dell’omicidio» è respingere l’imposizione della morte, rifiutare di cedere alla barbarie di chi considera sostenibile l’uso delle armi per dirimere inesistenti controversie. Analogamente, protestare contro la mancanza di libertà è rifiutare la logica di chi ricorre alla violenza per imporre le proprie deliranti minacce nucleari. Come non cogliere il legame tra questi gesti estremi e quanto sta avvenendo in Iran, dopo l’uccisione di Masha Amini e Hadis Najafi: centinaia di giovani sono morti pur di non rinunciare alla protesta contro chi uccide per un velo indossato in modo non corretto.
Le dittature della violenza sono unite dall’assurdità dei princìpi cui si ispirano: una guerra priva di senso, che annienta l’esistenza di bambini, donne e uomini caduti senza sapere perché; l’imposizione di regole insensate, dettate per negare diritti fondamentali, ottusamene misconosciuti.
di Cesare Cicorella
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