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Xi Jinping contro il rock’n’roll

Più di sessant’anni dopo la scoperta italiana del rock, nella Cina comunista di Xi Jinping quel ballo e quelle musiche non s’hanno da fare

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Xi Jinping contro il rock’n’roll

Più di sessant’anni dopo la scoperta italiana del rock, nella Cina comunista di Xi Jinping quel ballo e quelle musiche non s’hanno da fare

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Xi Jinping contro il rock’n’roll

Più di sessant’anni dopo la scoperta italiana del rock, nella Cina comunista di Xi Jinping quel ballo e quelle musiche non s’hanno da fare

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Più di sessant’anni dopo la scoperta italiana del rock, nella Cina comunista di Xi Jinping quel ballo e quelle musiche non s’hanno da fare

«Tu vuò fà l’americano, ‘mericano, ‘mericano / Sient’a mme chi t’ ‘o ffa fa / Tu vuoi vivere alla moda / Ma se bevi whisky and soda / Po’ te siente’ e disturba / Tu abball’ o’ rock’n’roll». Come dimenticare il ritornello della canzone di Renato Carosone “Tu vuò fà l’americano” che impazzava nell’Italia del boom, nella seconda metà degli anni Cinquanta, in una nazione che scopriva l’industrializzazione e – col ricordo ancora recente e doloroso dei vent’anni di dittatura fascista – si apriva alle mode americane, rock’n’roll compreso.

Ebbene, più di sessant’anni dopo la scoperta italiana del rock, nella Cina comunista di Xi Jinping quel ballo e quelle musiche non s’hanno da fare. Seguendo la dottrina del suo leader, Pechino ha infatti individuato una serie di pericoli e minacce culturali per la sicurezza del Paese e l’identità stessa del popolo del Dragone. Fra queste vi sono il rockn’roll, la musica pop, Internet e altri prodotti culturali occidentali. Nel pensiero di Xi Jinping si tratta infatti di fenomeni artistici e tecnologici che potrebbero generare «rivoluzioni colorate», al punto da essere stati inseriti come rischi nel nuovo libro di testo adottato ufficialmente nei corsi universitari sull’educazione alla sicurezza in Cina.

La storia, in questo caso, è vecchia come il cucco e attiene al come le dittature e le autocrazie abbiano sempre considerato un pericolo tutto ciò che sprigiona l’individuo nelle sue sfere di libertà, dalla musica al ballo alla comunicazione. Per non andare lontano e guardare alla nostra Italia, negli anni di Benito Mussolini al potere attraverso la censura e la propaganda s’indirizzava e decideva ciò che gli italiani potevano vedere e ascoltare. Un cinema autarchico di propaganda (lo stesso Mussolini definì il cinema «l’arma più forte») accompagnato da una censura rigorosa dei film americani, allora quasi invisibili. Una cappa illiberale che con l’ingresso del nostro Paese nella Seconda guerra mondiale a fianco di Adolf Hitler e della Germania nazista si fece sempre più opprimente, con il divieto di ballare in pubblico, coi locali notturni chiusi e la musica americana (jazz compreso) proibita. Non andrà meglio in Unione Sovietica, con l’investimento su un cinema di regime (con esiti anche interessanti e di gran livello) che aveva un doppio scopo: educare e rinforzare le convinzioni del popolo riguardo alla scelta comunista e contestare il modello (culturale e anche politico) del cinema di Hollywood.

Lasciando la Storia e tornando alla cronaca, si capisce dunque come Xi Jinping non abbia inventato nulla ma anzi abbia studiato ciò che si è inceppato in Urss, per non incappare negli stessi errori. Il presidente cinese è infatti convinto che l’Unione Sovietica sia venuta giù «per l’incapacità di tenere sotto controllo la sicurezza nazionale, che è stata la principale causa del crollo» dopo che «aveva abbandonato il marxismo e il monopartitismo». La parola d’ordine cinese è quindi mantenere la sicurezza nazionale e per farlo, fra i tanti ingredienti comunisti di Pechino, c’è pure da tener d’occhio quel diavolo imperialista e americano del rock’n’roll.

di Massimiliano Lenzi

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