Sono tutti lì i candidati, con loro faccioni che campeggiano dal retro dei bus dell’Atac, nelle stazioni delle metropolitane, nelle piazze. Tutti a dire che non c’è problema, in cento giorni si avviano le procedure, in pochi mesi il nuovo stadio della Roma – dove Mourinho potrà correre verso la curva senza ritrovarsi col fiatone e dove, come spiega il ceo romanista Guido Fienga, i tifosi possano vivere il club «sette giorni su sette» e non solo quello della partita – diventerà realtà. Bello, bellissimo.
Solo che magari sarebbe necessario che i candidati medesimi spiegassero come possono fare in una manciata di settimane o mesi quel che non si è riuscito a fare in cinque anni. E i nuovi proprietari della squadra precisare quali sono le condizioni affinché «uno dei maggiori progetti industriali, fondamentale per la ripresa economica della Capitale» (ancora Fienga dixit) possa dal cielo dei sogni scendere sul terreno dell’attuazione.
Già perché lo stadio giallorosso è una delle metafore principali di come in Italia – pur in presenza di condizioni tutte favorevoli: capitali economici; convenienza amministrativa, mediaticità politica – non si riescano a realizzare infrastrutture significative né a implementare progetti strutturali. Per chi volesse farsi una cultura, basta leggere le cronache puntali e professionalmente impeccabili di Fernando Magliaro (www.fernandomagliaro.com), che ha seguito la vicenda passo passo, sviscerandone ogni aspetto.
Il succo è molto semplice: impicci burocratici, aggrovigliamenti e incertezze amministrative, speculazioni tentate, opposizioni ideologiche, incapacità progettuali si sono rincorse negli ultimi cinque anni rendendo la costruzione dello stadio una chimera, l’ennesimo e avvilente capitolo dell’incapacità nostrana di passare dalle declamazioni ai fatti, dalle mirabolanti promesse alla realizzazione fattuale.
Che il nuovo impianto sia necessario l’hanno detto e continuano a dirlo tutti. Ci sono motivi di prestigio nazionale e internazionale di una metropoli unica al mondo; ragioni di sicurezza nell’uso e nella gestione delle presenze sugli spalti; convenienze economiche e di pianificazioni strutturale per l’ammodernamento di un territorio e il suo indotto. Eppure riunioni su riunioni, assessori su assessori, proprietari su proprietari non hanno prodotto nulla.
Chissà se adesso sarà la volta buona. Chissà se Roma Capoccia smetterà di dare capocciate sul muro della demagogia e della superficialità. L’augurio è questo. Però quei faccioni, accompagnati dalle litanie di sempre e dai gorgoglii che tutto dicono e nulla fanno intendere, non inducono all’ottimismo. Meno sorrisi e più certezze sarebbero assai meglio.
di Carlo Fusi
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Tag: Italia
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