Ciò che sta mettendo in scena in queste ore la politica italiana, più che una presa di posizione su temi urgenti sembra una corrida, dove il Presidente del Consiglio viene matato dai partiti per puro capriccio.
Molto rumore per nulla. Non c’è niente dell’epica di William Shakespeare e c’è molto, invece, delle commedie di Alberto Sordi nel tramestio che la politica italiana sta mettendo in scena in queste ore. Nonostante la guerra, la crisi del gas e l’inflazione, la libidine delle banderillas identitarie da piantare sulla schiena di Mario Draghi sembra essersi impossessata di buona parte dei partiti della maggioranza.
Sui temi delega fiscale, riforma del catasto e tasse, i leader del centrodestra di governo – Matteo Salvini, Antonio Tajani e Maurizio Lupi – hanno incontrato ieri il presidente del Consiglio. Una sfilata per comunicare che loro sono contrari a ogni aumento di tasse.
Draghi, da tempo, va sottolineando che le tasse non aumenteranno e allora delle due l’una: o il centrodestra di governo non si fida del presidente del Consiglio oppure l’avvicinarsi delle elezioni sta eccitando troppo i partiti che lo compongono.
Un avvicinarsi lontano (visto che la data naturale per le politiche è il 2023) che fa scalpitare in queste ore pure Matteo Renzi, leader di Italia Viva, il quale ha sottolineato che il suo partito non voterà la riforma della giustizia della Cartabia perché inutile.
Intendiamoci: anche a noi la riforma non fa impazzire, poteva essere molto più coraggiosa e incisiva. Detto questo, se la maggioranza di governo ha concordato quella riforma non votarla significa porre un problema politico prima ancora che sulla giustizia. A quale scopo (che poi è la stessa domanda cui dovrebbe rispondere il centrodestra di governo che scalpita sulle tasse)?
Mario Draghi è andato a Palazzo Chigi invocato dai partiti (tutti, tranne Fratelli d’Italia e pochi altri parlamentari) visto che da sola la nostra classe politica non era stata capace di tirare fuori nulla di buono. Oggi, francamente, il quadro non pare cambiato.
Inoltre è sempre più evidente che quel disegno politico, battezzato per sintesi giornalistica “sovranismo”, in Italia sia in piena crisi. A certificarlo è stato nientedimeno che Luigi Di Maio, attuale ministro degli Affari Esteri. Interpellato sul ballottaggio in Francia, ha detto: «Faccio solo una considerazione che vale per l’Italia e la faccio mia: noi oggi possiamo scegliere due strade, quella del sovranismo che ci isola, e quindi poi non ci dà il diritto di chiedere all’Ue sostegno sul prezzo del gas o un altro Recovery Fund di guerra.
E poi c’è l’europeismo, che ci consente di non far deflagrare nostre strutture internazionali ma anzi di continuare a rafforzarle. In questo momento noi abbiamo bisogno di europeismo e non di sovranismo». Detto da un politico che solo tre anni fa governava con la Lega di Matteo Salvini e incontrava i gilet gialli in Francia, è una notizia.
Del resto, lo stesso sovranismo di Salvini – che tanti successi aveva mietuto nel 2018 e in parte del 2019, puntando soprattutto sul tema dell’immigrazione e sul come fermarla – oggi appare afono mentre la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, in crescita nei sondaggi, non sposa la Le Pen in Francia, è atlantista sulla guerra russa in Ucraina e dialoga pure con Enrico Letta del Partito democratico.
Questo è il quadro della corrida de’ noantri, dove continuare a voler matare il toro Draghi non farà vincere i politici-toreri ma rovinerà soltanto lo spettacolo.
di Massimiliano Lenzi
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