A oltre un mese dall’inizio del conflitto russo-ucraino, ci si interroga sul futuro del Paese attaccato, ma anche dell’Europa intera. È possibile un ritorno alla normalità?
Sgombriamo il campo dagli espedienti ai quali facciamo ricorso, quando abbiamo difficoltà a comprendere quello che accade. Ucraina. Dunque? Niente letture in termini di geopolitica. Abbandono delle chiavi di interpretazione correlate ai diktat della storia, alle maledizioni del passato, alle prospettive disumane di chi studia l’uomo. Fermiamo questi sproloqui sul senso profondo della guerra. Informiamo l’analisi a logica e semplificazione: quando tutto sarà finito, cosa avverrà?
Il tutto è, ovviamente, “la guerra”. Perché si possa parlare della sua fine, dobbiamo individuarne la ragione. Non agevole, ma, semplificando, riduciamo a: l’aggressore voleva invadere, occupare e governare; l’aggredito, difendersi. L’invasione si conclude quando tacciono i cannoni: il Paese è, quindi, occupato. Situazione: difesa cessata. Esito? Devastazione: le città, rase al suolo, sono cumuli immensi di rovine; e poi annientamento delle industrie, eliminazione delle fonti di produzione energetica, inquinamento, dissoluzione della rete stradale e di quella idrica.
A tacere del resto, il deserto della civiltà. Il tutto calato, ovviamente, in uno scenario cimiteriale: il numero dei morti non sarà mai completamente conosciuto e la morte sarà comunque la prospettiva. Intorno, milioni di profughi che si disperdono per le strade dell’ordinata Europa.
I bisogni dell’Ucraina che invece ha respinto l’invasore? La normalità. È possibile? Logicamente significa ricostruire ciò che si è distrutto. A partire da dove? Le abitazioni civili, per consentire il ritorno: rimozione delle macerie, progetti, individuazione delle risorse necessarie, mano d’opera, industria per la produzione dei materiali, macchinari, ricostruzione delle strade, ripristino dell’energia. Il costo? Certo qualcuno lo dovrà sostenere. Lo troveranno. È possibile? Forse.
Ovviamente, tutto ciò non basta. Si devono ricostruire – dalle macerie – aeroporti, porti e stazioni. Ma per farlo è necessario riavviare la produzione di elettricità e la rete distributiva: riaccendere le luci. La fame? Non dimentichiamo il cibo. Agricoltura? Allevamento? Anche qui rovine da rimuovere, persone da collocare e industrie da reinventare nel cuore della civiltà dei consumi.
Nel frattempo i profughi rimangono tali. Le loro vite? Si dovranno adattare, forse arrangiare: passata la fase dell’accoglienza, restano i bisogni, i rimpianti e i lutti che alimentano il risentimento, terreno fertile per l’odio, prodromo del bisogno di vendetta. Il futuro? Logica e semplificazione? Forse abbiamo dimenticato l’uomo. Ci possiamo riprovare. (Continua?)
Di Cesare Cicorella
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