La decisione di spostare la finale di Champions del 28 maggio da San Pietroburgo a Parigi è l’ennesima prova del potere simbolico dello sport e del calcio in particolare. A cui non si chiede di essere neutrale
In tempi di guerra il calcio non può essere neutrale e l’Uefa ha finalmente deciso: la finale di Champions, prevista per il 28 maggio a San Pietroburgo, si sposterà allo Stade de France di Parigi.
Il cambiamento era nell’aria dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ma lo spostamento di sede è stato ufficializzato soltanto ventiquattr’ore fa. Per quanto riguarda poi le partite che coinvolgeranno squadre russe (o ucraine), queste verranno spostate su campi neutri.
La reazione del Cremlino alla decisione Uefa non si è fatta attendere e il portavoce di Vladimir Putin, Dmitry Peskov, ha definito una «vergogna» la scelta di «togliere a San Pietroburgo la finale di Champions League. San Pietroburgo – ha aggiunto – avrebbe potuto offrire le migliori condizioni possibili per lo svolgimento di questo evento calcistico». Parole anche banali, che tacciono su ciò che di simbolico, da sempre, lo sport rappresenta anche nei suoi risvolti politici.
Le teche sono piene di eventi che raccontano furbizie (dei regimi) o rigore (delle democrazie) rispetto allo sport, dalle Olimpiadi di Berlino del 1936 diventate una vetrina per il regime nazista di Adolf Hitler al boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca del 1980 da parte degli Stati Uniti dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Persino nell’antica Grecia, volendo uscire dal sangue del Novecento, le Olimpiadi e lo sport incarnavano anche un significato etico e politico.
Per queste ragioni il gioco del pallone, in tempi di guerra, tutto può essere tranne che pilatesco.
di Jean Valjean
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Tag: sport
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