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L’altalena

L’unità raggiunta dal nostro Paese in politica estera è un risultato positivo. Tanto più che la posizione del governo è inequivocabilmente atlantista, europeista e schierata a difesa dell’Ucraina.
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L’altalena

L’unità raggiunta dal nostro Paese in politica estera è un risultato positivo. Tanto più che la posizione del governo è inequivocabilmente atlantista, europeista e schierata a difesa dell’Ucraina.
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L’altalena

L’unità raggiunta dal nostro Paese in politica estera è un risultato positivo. Tanto più che la posizione del governo è inequivocabilmente atlantista, europeista e schierata a difesa dell’Ucraina.
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L’unità raggiunta dal nostro Paese in politica estera è un risultato positivo. Tanto più che la posizione del governo è inequivocabilmente atlantista, europeista e schierata a difesa dell’Ucraina.
L’unità raggiunta è preziosa. La convergenza un risultato molto positivo. Tanto più che la posizione del governo è inequivocabilmente atlantista, europeista e schierata a difesa dell’Ucraina. Compatti nell’Unione europea (la cui presidenza di turno è affidata a Emmanuel Macron), con la Nato, contro la Russia. Questa odierna condizione, però, non può farci dimenticare che abbiamo iniziato la legislatura – quindi con gli emicicli abitati dalle medesime persone – con l’Italia schierata all’opposto. Con un vice presidente del Consiglio che andava in Francia a solidarizzare con i violenti contro Macron, mentre l’altro guardava a Putin con adorazione. Avevamo un governo polemico con le istituzioni dell’Ue e un partito di maggioranza relativa, lo stesso che abbiamo ancora, che stava con Chavez e contro la Nato. Le cose cambiano, dicono i trasformisti. Ma è una patetica scusa. Il punto importante, guardando al futuro, è capire perché la politica estera italiana sia così altalenante, perché abbiamo la fama di esser quelli che cambiano fronte. Capire da dove nasca una tale condizione. Perché gaullisti e socialisti, in Francia, non sono la stessa cosa, conservatori e labouristi non lo sono nel Regno Unito, cristianodemocratici e socialdemocratici non lo sono in Germania: vi sono profonde differenze fra loro, ma da nessuna di quelle parti si dondola in altalena e il colore dei governi non cambia il colore internazionale del Paese. Perché da noi è diverso? Troppo comodo e superficiale farne una questione di spessore e coerenza di questo o quel politico. C’è qualche cosa di più profondo, che ci portiamo dietro dalla nascita unitaria e che attiene alla non determinazione del nostro posto nel mondo. Della nostra identità internazionale. Nel nostro inno nazionale c’è il ricordo di italiani «calpesti, derisi». Se si segue, nel tempo, l’umore politico e popolare, circa il rapporto con il mondo che ci circonda, vediamo il lesto passare dall’autocompatimento del non contare nulla alla mitomania del desiderio di dominio, dalla commiserazione per forze armate imbelli all’esaltazione della potenza guerresca. Tutto, sempre, giocato sul terreno del “destino glorioso” e su quello della “sorte avversa”. Mai sulla valutazione oggettiva delle forze, sulla realistica gestione degli equilibri. Abbiamo avuto delle eccezioni, capaci di produrre grandi risultati. La prima porta un nome noto, ma al tempo stesso poco conosciuto: Cavour. Ma restano delle eccezioni. Preferiamo i sognatori ai disegnatori, i lamentosi ai costruttori, i parlatori ai realizzatori. Il che nasce da irrisolte contraddizioni non tanto della nostra storia nazionale, quanto della sua falsificazione. Dall’Unità al fascismo, dalla Resistenza alla Repubblica, l’Italia che piace di più è quella della bugia. La destra odierna si dice “patriottica”. Bellissima cosa, di stampo risorgimentale. Ma se il Risorgimento lo si studia, nei suoi ispiratori e nei suoi realizzatori, ci si accorge facilmente, perché lo dissero e scrissero, che l’Unità sarebbe stata possibile solo dentro un contesto europeo. Non certo l’Ue, ma nella logica di convivenza e collaborazione fra europei. Eppure la nostra destra pretende d’essere patriottica e antieuropeista. Loro dicono: non è vero, siamo contro questa Europa. È quella che c’è. Inoltre quella che non c’è manca anche perché la si rende sempre difficile. La sinistra odierna si dice europeista. Bellissima cosa, ma per tutta la seconda parte del secolo scorso il nostro sistema politico rimase bloccato dal fatto che la preponderante parte della sinistra era antieuropeista e per l’uscita dalla Nato. Rimane lo strano retrogusto di componenti che si sono accorte in gran ritardo che si tratta di collocazioni non discutibili, sicché non si governa se non le si condivide. Che è come vivere la politica estera come subordinata alla collocazione interna. Non un buon modo per poterne essere interpreti. Confusa è stata l’area centrale. Ci fu un tempo in cui partorì un presidente della Repubblica che era contro la Nato (Gronchi). Ha coltivato e coltiva ambizioni di non allineamento – a cavallo fra il terzomondismo e il pacifismo mistico – preferendo sempre negoziare con tutti, che è come dire che tutto è negoziabile. Così abitata, la politica italiana non genera collocazione internazionale distinguibile e finisce sotto l’accusa d’esser ballerina. Poi arrivano le tragedie o i momenti di gloria e si fa l’unità di tutti. Che proprio perché tale è una copula senza amore.   Di Davide Giacalone

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