Incuriosisce il silenzio di Draghi che lascia parlare quasi solamente i fatti, quanti più possibile e verificabili.
La leggenda racconta che Michelangelo, di fronte alla statua di Mosè appena completata, affascinato dal suo realismo abbia esclamato «Perché non parli?», rabbuiandosi al punto di colpirne con lo scalpello il ginocchio. In maniera alquanto stravagante, Mario Draghi si ritrova suo malgrado a rinverdire l’epopea del Buonarroti, con nugoli di giornalisti e uno stuolo di prime firme che gli rivolgono, con malcelata stizza, il medesimo interrogativo. Ottenendo peraltro lo stesso risultato: muto il capolavoro, muto (o quasi) il presidente del Consiglio.
In effetti la leadership del silenzio è una novità assoluta nel panorama politico italiano post Prima Repubblica. Da quando Silvio Berlusconi compì, a modo suo per carità, un altro capolavoro mandando in giro la cassetta che esordiva «L’Italia è il Paese che amo» col sottinteso «e che voglio governare qui e ora», la comunicazione è diventata la cornucopia del consenso politico. Chi era bravo a farla, magari circondandosi di uno stuolo di esperti e di una calza da piazzare sul video, diventava leader. Peraltro subito comprendendo: non per quello che diceva bensì per come.
Passo dopo passo la comunicazione si è fatta stentorea nei toni e obnubilatrice nei contenuti. Nei duelli tv e nei talk show il mondo delle promesse diventava tanto facilmente fattibile quanto rivelarsi fallace non appena spento il televisore o guadagnato il potere. Scadendo sempre più di livello fino a diventare insulto col Vaffa, la comunicazione si è trasformata in affabulazione e la distanza tra il detto e il fatto un abisso incolmabile. La gente si è assuefatta mutuando il meccanismo e facendo diventare altrettanto abissale la distanza tra sé e il Palazzo: vedere alla voce astensionismo.
Mario Draghi ha rovesciato lo schema: più che le parole (poche e prive di enfasi), contano i fatti (quanti più possibile e verificabili). Logico che la comunicazione, via via trasformatasi in teatrino sia da parte dei protagonisti che di chi sta in platea e prende appunti, ne risulti stordita e inebetita. Forse è uno sbaglio, forse un progresso. Ma è difficile contestare il metodo di SuperMario che non è né mai sarà un emulo del pifferaio di Hamelin. Il potere, è noto, ama circondarsi dell’oscurità e del silenzio per meglio gestire i suoi ambiti. Però alzi la mano chi crede che Draghi non vada nell’universo rutilante dei talk per nascondere i suoi atti. Il suo è un silenzio operoso e andrà valutato alla fine del percorso governativo. È il regista che intima «Ciak si gira!» con gli attori che parlano per lui attraverso la recitazione. Non sarà mai Michelangelo, ma vuoi vedere che ne viene fuori un quasi capolavoro?
di Carlo Fusi
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